4.10.10

“Mythologies” di Roland Barthes. Un classico del Novecento

Gli incontri di catch nelle periferie parigine, le patate fritte, la pubblicità dei detersivi, l’epopea ciclistica del tour de France, le rubriche astrologiche di Elle, la Citröen, il viso di Greta Garbo, lo strip tease, i monumenti e i ristoranti delle guide turistiche, i marziani, le immagini dei candidati nei manifesti elettorali... Sono, tra gli altri, i temi di Mythologies, il grande libro con cui Roland Barthes nel 1957, analizzava l’ideologia piccolo-borghese della società di massa, descrivendo il processo attraverso cui la cultura mediatica, parlando e riparlando di fatti e persone apparentemente futili, li trasformava in oggetti “assoluti” di ammirazione. In Italia lo pubblicò (e ripubblicò molte volte a partire dal 1964) Einaudi con il titolo, Miti d’oggi. Barthes fa il lavoro che, qualche anno più tardi, con gli strumenti della satura, avrebbe fatto Umberto Eco con il suo Diario minimo (vedi la postilla critica in questo stesso blog http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/10/lettera-mio-figlio-di-umberto-eco-da.html). Con il libro di Eco questo di Barthes, che ne è in un certo senso il fratello più grande, ha in comune l’origine: i brevi articoli che lo compongono nascono come brevi articoli pubblicati in rivista (nel caso France Observateur); ha in comune ovviamente la “varietà” e la mescolanza di alto e basso; ha in comune l’acutezza dell’osservazione e il feroce sarcasmo. Ho l’impressione invece che più di Eco Barthes abbia la capacità di lavorare sul dettaglio, su quello che a prima vista sembra del tutto privo di significato. Come appendice a questa nota, posto qui di seguito un bell’articolo di Antonio Scurati (da “La Stampa” dell’8 aprile 2007), che nel cinquantenario cerca di aggiornare la rassegna del grande semiologo francese.
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Miti di ieri e miti di oggi
di Antonio Scurati 
Sono passati già cinquant'anni da quando Roland Barthes ci rivelò che gli dei e gli antichi eroi non hanno disertato questo nostro mondo prosaico e secolarizzato, che le loro figure ammaliatrici ancora si aggirano tra noi sotto le mentite spoglie di un lottatore di catch in una sala di periferia, di un marziano da fumetto, di un utilitaria ultimo modello o di un ciclista in fuga solitaria sui passi di montagna. Sono passati già cinquant'anni da quando Barthes scoprì che, a dispetto di tante rivoluzioni annunciate e poi smentite, «siamo ancora una società borghese» ma che, nonostante l'anonimato sia la superiore ideologia di questa nostra società di uomini grigi, nonostante la sua propensione a sottrarre alle cose il loro senso umano fino a spingerle verso l'insignificanza umana, e, anzi, proprio a causa della sua irresistibile tendenza ad ammassare ogni cosa nell'universo dell'indifferenziato, mai una società prima di questa produsse tanti miti quotidianamente. Fanno, infatti, già cinquant'anni che Barthes ha dato alle stampe Miti d'oggi, il libro nel quale per primo il semiologo francese cominciò ad analizzare i fenomeni della cultura di massa alla stregua di figure del mito. Spinto dall'insofferenza che provava davanti alla «naturalità» di cui incessantemente la stampa, l'arte, il senso comune, rivestivano una realta' storicamente determinata, Barthes, si mise a leggere le rappresentazioni collettive come sistemi di segni, e arrivo' cosi' a riformulare radicalmente la nozione di mito, trovando proprio nella mistificazione che trasforma la cultura piccolo-borghese in una finta natura universale la specificità del linguaggio mitico dei nostri giorni. Il mito, cioè, considerato in quanto sistema di comunicazione, in quanto modo di significare e non in quanto oggetto o concetto, si dimostrava capace di applicare il proprio linguaggio alla materia e agli oggetti apparentemente più dimessi, più triviali, più bassi. Anzi, era proprio questa nozione di mito come sistema semiologico secondo, capace di prendere un segno qualsiasi, anche il più dozzinale, e di elevarlo al rango di presenza numinosa, di significato dall'apparenza eterna, a spiegare la sorprendente capacità di trasformarsi in icona, di assumere un'aura sacrale, dimostrata da qualsiasi immagine, oggetto o persona nella società dei consumi di massa. Il mito, ci rivelava Barthes cinquant'anni fa, consiste proprio nella mistificazione grazie alla quale le cose dissimulano la propria caducità, la propria genesi storica, la propria vita artificiale, il proprio destino effimero, ammantandosi della abbagliante indiscutibilita' di fatti naturali. Da sempre il mito trasforma la storia in natura, prende le cose quotidiane e gli conferisce lo splendore apparente delle cose segretamente presenti fin dall'origine dei tempi, dinnanzi alle quali si puo' solo trasalire sgomenti o genuflettersi adoranti. Soltanto che oggi, a differenza d'un tempo, il mito sceglie i propri oggetti per lo più dagli scaffali dei supermercati. Cinquant'anni dopo questa rivelazione, viviamo tutti ancora in una società borghese, solo che adesso nessuno si aspetta piu' che da un giorno all'altro smetteremo di farlo. Dunque non rimane che aggiornare il catalogo dei «miti d'oggi». E allora: se Barthes, negli anni '50, vedeva la dimensione mitica del marziano, ossessivamente atteso a bordo del suo disco volante in tutti i tinelli piccolo-borghesi, oggi è indubbio che l'omino verde venuto dagli spazi siderali ad annientare il pianeta terra abbia ceduto il posto a figure di fantascienza dello spazio interno, a orrori della porta accanto, a figli matricidi o a madri infanticide. Altro indiscutibile «mito d'oggi» d'inizio millennio è la pornografia. Grazie alla diffusione capillare di Internet, un'intera generazione di adolescenti si sta formando eroticamente con dosi massicce di pornografia. Se Barthes, negli anni '50, vedeva nel mito dello streap-tease la capacità di desessualizzare la donna nel momento stesso in cui la spogliava, oggi la pornografia compie il prodigio di deumanizzare la sessualità nell'atto stesso di esibirla: il sesso visto nell'ottica porno e' indubbiamente risacralizzato ma come cozzo tra divinita' ittofalliche e femmine bestiali, in una fantasmagoria iperrealista di corpi madornali, sempre situati al di sopra o al di sotto dell'umano, sempre subumani o sovrumani. Tanto che quando l'umano li incontra ne e' schiantato. Se Barthes analizzava la fascinazione promanata dal viso della Garbo, una specie di «stato assoluto della carne» che «offriva un'idea platonica di creatura> >, oggi analizzerebbe il ventre piatto della simil-anoressica Kate Moss, e forse in questa nuova spinta alla rarefazione leggerebbe un disgusto della carne lasciata a se stessa, in assenza di qualsiasi idea, una mossa che mira all'eternita' non uscendo dal tempo ma bloccandolo all'età acerba dell'adolescenza. Forse oggi Barthes non demistificherebbe più il mito d'igienizzazione totale comunicato dalle pubblicità massicce di saponificanti e detersivi ma quello di una nuova atarassia, di una imperturbabilità astenica promesso da analgesici e ansiolitici. Con l'Aulin al centro di questa mitologia della purificazione non attraverso il dolore ma dal dolore, di questa igiene di un mondo mondato di ogni patimento. Infine, oggi come ieri, il mito delle presunte immagini-choc di guerre e carneficine fotografiche o televisive, il cui orrore, oggi come ieri, promana non dal fatto in sè che vi è rappresentato ma «dal fatto che noi le guardiamo dall'interno della nostra libertà». O indifferenza. Forse, all'inizio del nuovo millennio, e' proprio questo il principale «mito d'oggi»: la guerra che dura ininterrottamente sui nostri schermi, obbligandoci ad accettarla, impassibili e inerti, come un fatto naturale, a guardarla come si guarda un bosco di alberi millenari.

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