9.9.10

Luigi Pintor. Gregario a 'l'Unità'. (Da "Servabo")

Da Servabo. Memoria di fine secolo, il breve e intenso libretto autobiografico che Luigi Pintor compose e pubblicò per Boringhieri nel 1991, propongo qui il capitolo IX, che l'autore intitolò Il mestiere, rievocazione commossa e ironica degli anni de "l'Unità", esempio di una prosa essenziale, nitida, bella. Un grande momento, un grande scrittore (S.L.L.).
Era solo un giornale ma per noi era molto di più, ed entrarci non era una scelta di mestiere ma un arruolamento volontario. Si diceva che il carcere avesse fatto per alcuni le veci dell’Università formando combattenti di pasta speciale. Un giornale era molto più comodo di un carcere ma poteva avere la stessa funzione, essere vissuto anch’esso come un centro d’addestramento, una comunità e una scuola, una frontiera dove lo stato d’emergenza è quotidiano per definizione.
Mi era rimasto nell’orecchio che le rivoluzioni riescono quando le preparano quelli che non c’entrano niente, i poeti e i pittori, purché sappiano qual è la loro parte. E poiché gli operai possono fare da soli moltissime cose meglio di chiunque, ma più difficilmente un prodotto immateriale com’è un giornale, fui persuaso che questo compito spettava a dei giovani acculturati, purché lo assumessero come un compito speciale: un compito d’onore.
Ero un ottimo gregario, tutti lo eravamo, e ci prestavamo volentieri a qualsiasi mansione secondo un criterio di utilità comune. Non era deludente, in quel tirocinio, accorgersi che lo scrupolo era più apprezzato dell’iniziativa, l’uniformità più dell’inventiva. Una massima di quel tempo diceva che le grandi cose nascono dalle piccole, c’era addirittura un cartello con questa scritta appeso a una parete, e ci sembrava una gratificazione sufficiente. Un vecchio e valoroso combattente ci ricordava di spegnere le luci quando non servivano, perché quei soldi erano degli operai.
Eravamo benvenuti nell’arena, i più giovani come me, purché ci adeguassimo a regole e canoni stabiliti altrove, in luoghi leggendari e da uomini sperimentati che venivano da lontano e meritavano reverenza, la consideravano dovuta e non la disdegnavano affatto. Noi rendevamo volentieri il nostro tributo a questi severi maestri, depositari indiscussi di una fede collettiva. Scostarsi nelle idee e nei comportamenti dai confini che ci venivano assegnati significava scivolare sul piano inclinato delle lusinghe mondane. Giacché molti di noi venivano da una classe sociale che a quelle lusinghe era esposta per natura.
Questa regola non valeva solo per le cose importanti ma anche per quelle minute. Andare al cinema invece che nelle assemblee di periferia, mettere da parte i soldi per una vacanza familiare, erano comportamenti furtivi. Se il salario operaio era per noi la giusta misura e la condizione per salvaguardare un punto di vista universale, era malfatto integrarlo con accorgimenti. Se lavoravamo senza tornaconto o ambizione, quasi sotto il vincolo di un voto, era riprovevole cercare compensazioni altrove, magari in facili amori.
In questa vita collegiale trovava posto uno spirito d’amicizia, la sensazione di governare il futuro e quindi anche un’eccitazione e un divertimento. Facevamo molto tardi, fino alle cinque del mattino, ma il lavoro compiuto premiava la fatica. Fuori della tipografia, quando ancora si beveva latte contro i veleni del piombo, c’era in un vicolo un laboratorio di pasticceria dove frittelle bollenti rotolavano su un nastro di zucchero. Un camioncino collettivo attrezzato con le panche, come quelli in pubblico servizio nei giorni del dopoguerra, faceva all’alba il giro della città per portarci a dormire. E in quello spazio chiuso nascevano anche amori proibiti ma anche legittimi matrimoni, ringiovanendo la comunità.
C’era dell’orgoglio nell’idea di fronteggiare da soli la propaganda nemica e uno stimolo ad affinare le nostre capacità. Per anni ho applicato alla scrittura le tecniche meticolose che si usano su una tastiera. Ritagliavo e limavo i miei scritti stampati sul giornale, interminabili resoconti di discorsi altrui e timide prove personali, scoprendo che c’è sempre una riga su tre di troppo e arrivando alla conclusione che due pagine (come ancora sostengo) bastano ad esaurire qualsiasi argomento.
Ora penso di aver praticato un mestiere e un genere di esistenza molto diversi da quelli che mi ero proposto. Due pagine accumulate ogni giorno nel corso del tempo, come i romanzeschi pesciolini d’oro colombiani, formano una pila alta dodici mila fogli di calendario, un lungo tratto della vita. Ma allora non dubitavo che valesse la pena, perché gli uomini di buona volontà (gli uomini semplici, preferivamo dire) avrebbero cambiato il mondo.

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