26.9.10

Don Giovanni e l'etèra (di Aldo Palazzeschi)


Perché la mamma diveniva tanto rigida e più seria all’incontro di quel signore?
Per la mano che mi teneva sentivo il suo braccio indurirsi, e indurirsi insieme vedevo la sua faccia, e gli occhi guardare fisso in avanti seguitando a camminare tutta d’un pezzo come un automa.
Sentivo lei così, e guardavo lui con’era.
Un signore di mezzo secolo forse, forse abbondante, abbastanza alto e discretamente pingue. Portava dei pantaloni a quadrettini, e le scarpe di coppale con le ghette candide, candide come il panciotto di picchè sul quale pendevano i festoni d’una grossa catena d’oro, a treccia, e che aveva nel mezzo un bel ciondolo blu. La cravatta di raso a grande piastra, coi fiorellini rossi e il ferro di cavallo in brillanti e rubini. Il tait, la mezza bomba opaca in testa… nell’inverno un paltò color tortora, i guanti paglierini immancabilmente, e una canna il cui pomo raffigurava un cane da caccia.
Sulle guance rosee e vellutate, che rivelavano una lunghissima cura, colme e un pochino pencolanti, i baffi lunghi di zucchero filato, e di indefinibile colore, arricciavano le punte lucentissime per infilzare come frutti canditi gli occhi cerulei e dolci, vissuti e puerili, contornati da una melma di rughettine che nel vapore di un sorriso, più dolce ancora dello sguardo, parevano liquefarsi dentro due borse. E un’altra cosa sempre uguale su cui erasi fissata la mia curiosità: all’occhiello del tait, o a quello del paltò, una camelia rosa simile molto al carname delle guance, poiché l’artifizio riusciva a dare il tono molliccio e caldo del neonato a quelle vecchie fibre.
Sempre uguale così: morbido e dolce; e, come vi ho detto già, mi faceva diventare sempre uguale la madre: diritta e dura, tutta d’un pezzo.
Perché la mamma diveniva tanto più rigida e più seria?
Le due cose non potevano passare inosservate al fanciullo curioso e attento. S’incontrava tutti i giorni verso sera, presso a poco per la medesima strada, sullo stesso marciapiede; e più che camminare dondolava, girava e rigirava sui piedi giuocando col bastone, sporgendosi in movimenti che facevano pensare alla gondola e al tacchino insieme, i quel gongolamento che sembrava accentrare la felicità circostante per quelle due o tre strade solite del passeggio, sulla fine del giorno o nella prima ora della notte.
Finché una volta, dopo un lungo avvertire questo fenomeno, costretti dall’angustia del luogo e per il passaggio di una carrozza a rasentarlo, trovandomi a lui sotto: “Che bel fiore!” gli dissi accennando la camelia rosa: “Signore, me lo da?”.
Non vidi più né il fiore né il signore, e neppure la strada, che ogni cosa ballava e mulinava intorno a me.
Mi ero preso un tale ceffone… così difficile a descrivere quanto a dimenticare. E mentre la mamma mi tirava cattiva, e i miei occhi riprendevano più ferma la visione del mondo, quello le s’inchinava dietro tutto proteso e sorridente, e le diceva: “Cara, cara, brava mammina, ha fatto bene, sì, brava, così, bella, carina!”.
Figlio d’un cane! Anche lui mi dava addosso dopo che gli avevo fornito il pretesto di parlare a mia madre, e sfogarsi a quel modo della sua ammirazione scaricandosi di certe espressioni galanti che fino a quel momento aveva potuto dire solo con gli occhi o a fior di pelle: “Bene, brava, bella mammina, brava, carina, sì…”.
Da quella sera però, all’incontro di quel signore la mamma si faceva meno rigida e dura, né lui la guardava più insistentemente o con la medesima tensione. Con questo incidente si era chiusa la partita, allorché io imparai praticamente che quell’uomo tutto roseo e dolce non si doveva guardare né, tanto meno, chiedergli un fiore.
E non è questo il solo ceffone ch’io mi presi sugli albori della vita, per il mio precoce interesse, non dirò simpatia, verso i peccatori della carne.
Nel parlare che faceva mia madre, in famiglia o colle amiche, mi aveva colpito una frase ripetuta sovente, e della quale mi domandavo un significato recondito, non potendomi contentare di quello primo che mi appariva: “Una donna sola”. Una donna sola, per quello che m’era dato capire, era a quel tempo la posizione più insostenibile, più acrobatica, più assurda che potesse capitare a una creatura di sesso femminile che non intendesse abdicare alla propria dignità.
Che cosa poteva fare una donna sola? Nulla, letteralmente nulla, restarsene chiusa in casa o andarsi ad affogare. La domenica e nei giorni di festa non le era ammesso circolare per le strade, né entrare in un locale pubblico; e in quelli di lavoro doveva filare in gamba e contenersi con maggiore difficoltà di un equilibrista sul filo e con l’ombrellino giapponese; ed essere a casa prima dell’imbrunire. La notte, poi, una donna sola poteva correre solo per chiamare il prete, nemmeno il dottore o la levatrice.
Così dicendo mia madre guardava me, e m’indicava all’interlocutrice con un sorriso pieno di compiacimento, quasi chiedendo ammirazione e consenso per quello che io rappresentavo, per il mio valore indiscutibile; e quella subito si sentiva in dovere di carezzarmi e occuparsi di me che salvavo una situazione tanto difficile in così tenera età; giacché a quei tempi di poca naturalezza bastava un bambino per dare a una signora nelle vie cittadine un contegno normale che le permettesse di circolare rispettata e onorevolmente, se pure con grandissima cautela. Infatti, fino all’età di otto o dieci anni, fui tenuto per la mano, alla destra di mia madre come un cagnolino al guinzaglio, ciò che mi faceva covare dentro, come sapete, desideri di evasione, e mi fa domandare oggi per quale miracolo il mio braccio sinistro non sia più lungo del suo fratello un pochino.
Le donne che giravano da sole a quei tempi erano o le straniere, che godevano libertà illimitata per essere di un altro paese, e generalmente più evoluto in fatto di vita sociale; tutti le conoscevano a colpo, né si curavano di quelle; le donne del popolo dalle quali, per loro immensa fortuna, non si esigevano tante calìe; e le coccottes: e si riconoscevano si colpo anche queste. Tre classi separate e ben distinte, avendo ognuna il suo modo di fare e di vestire, i suoi caratteri specialissimi riconosciuti generalmente. Le ultime giravano sole perché nessuno si sarebbe accompagnato con esse, da quelle che marciavano in pariglia come grandi dame, a quelle che battevano i tacchi sul marciapiede, infioccate soverchiamente, agitando pennacchi come insegne, e che parevano portare a  spasso tutto il disordine e le vergogne della società. Erano tanto diverse dalle altre donne che nemmeno il campagnolo più inesperto avrebbe potuto prenderle per signore, e neppure per popolane, ché alle donne del popolo molte licenze erano permesse e magari volgarità, sempre restando nel rango delle donne perbene. E anche il fanciullo attento non poteva tardare a individuarle come donne differenti da tutte.
Una di queste, più specialmente, aveva da tempo ferito il mio acume. Camminava spampanona e spavalda, guardando impudente quel mondo che fingeva di ignorare la sua esistenza, il suo volume, e i suoi colori che accentuava per accrescere il proprio equivoco di fronte ad esso che respingendola la eccitava a tener posto per tre. Si fermava e si voltava senza riguardo ispezionando la via, sventolando fiocchi e penne. L’uomo il più spregiudicato che avrebbe voluto parlarle per un affare urgente, si sarebbe recato con lei in un di quei vicoletti oscuri ch’erano i paraventi del pudore.
Una volta, passandole vicino dopo tanto osservarla, dissi indicandola a mia madre per ricevere una piena conferma della mia sagacità: “Guarda, guarda mamma, ecco una donna sola”.
La donna, colpita dal mio gesto ma non avendo afferrato le parole, si rivolse accigliata a mia madre per chiederle ragione d’essere segnata a dito da me; smaniosa d’attaccar baruffa con una borghese, ché certe donne non chiedevano di meglio che capitasse loro un pretesto per vendicarsi dell’amaro giudizio che la società borghese faceva ricadere sul loro capo, e sfogare le ire e le loro trivialità. Fortunatamente però non avendo afferrato le parole si contentò di lasciarci passare guardandoci minacciosa e quasi dicendo: “vi riconosco, sarà per un’altra volta”.
Mia madre le strisciò davanti divenuta un’ombra, un fantasma, sentii al mio fianco il suo corpo vuotarsi, vanire, cambiare stato, divenir sale o ghiaccio, non so, o meglio ancora un vapore, tanto leggèra era divenuta mia madre questa volta. fenomeno che non mi piaceva punto, per quanto non accennasse ad esprimere il suo rammarico verso di me. Poteva sembrare un orologio guasto, e mi chiedevo la conclusione di quella mia domanda rimasta senza risposta, ma non era invece che una sveglia carica. Appena entrati nel portone di casa, chè l’incidente era avvenuto poco lontano dalla nostra abitazione, si scaricò sulla mia faccia.
Pressi gli scapaccioni, ma non mi ero sbagliato però.
Compresi che anche quella non si doveva guardare: e due. Compresi che la mia curiosità doveva essere punita, e che una donna sola per le strade doveva essere la più immonda di tutte le creature.
Ma non valsero i ceffoni di mia madre a farvi odiare da me, povero don Giovanni da marciapiede, povera etèra da poche lire, poveri peccatori della carne.
Ed ora che la carne vostra non è più che polvere, quarant’anni sono passati, o risorta forse, per scontare la pena delle gioie terrene, se si possa dare una ragione tanto piccina per un fatto così grande, ricordo come carezze le ceffate di cui per il vostro peccato le mia tenera carne venne mortificata precocemente.


Postilla
Palazzeschi è un grande. Come poeta, innanzitutto. Chi può dimenticare l’incanto ch’egli sa costruire con materiali poetici poveri, d’accatto, giocandoci con la sua straordinaria intelligenza ed ironia. Un campione della sua poesia lo trovate anche in questo blog: modernissimo, sembra un’anticipazione demistificante del “Grande fratello” o delle consimili porcherie che la tv ammannisce (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/09/la-poesia-del-lunedi-aldo-palazzeschi.html).
Ma è grande anche come prosatore, per le geniali trovate con cui ravviva la sua prosa, in un fiorentino urbano condìto di deliziose glosse vernacolari. Qui, ad esempio, rinveniamo le calìe (nel testo vale “pignolerie”, “rigidità”, ma in senso proprio erano le minute particelle d’oro che si perdono quando lo si lavora) o spampanona (nei dizionari non si trova, ma di certo s’origina dai pampini che s’allargano prima d’avvizzire). Strano ma vero: nelle strade del mio paese di nascita, nella Sicilia interna, girava tutta sola e vestita di nero, con cappelli, velette e vesti da cocotte una povera donna, che dicevano impazzita per una delusione amorosa; la chiamavano la spampinata.
Il tema del racconto, memoria d’infanzia d’un figlio unico di madre vedova, e cioè il contatto con due figure marginali e proibite (quelle che la musa di Palazzeschi tanto amava) mi pare molto congeniale al suo spirito educatamente ribelle.
Il brano è tratto da Stampe dell’800, pubblicato per la prima volta da Vallecchi nel 1932 (S.L.L.). 

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