14.8.10

L'orrore della schiavitù e le sue eredità (di Alessandro Portelli)

L’articolo di Sandro Portelli che qui ripropongo ( da “il manifesto” del 28 febbraio 2007) prende spunto da una deliberazione del Parlamento della Virginia per ragionare della schiavitù ieri ed oggi, con il riferimento a testi di alto spessore letterario e storico. Da leggere. O da rileggere. (S.L.L.)

La schiavitù è stata abolita negli Stati Uniti nel 1863. Nel 2007, il parlamento dello stato della Virginia ha deciso che era stata un crimine e ha chiesto scusa agli afroamericani. Un atto dovuto, e tutto sommato giusto, anche se un po’ in ritardo. D’altronde, la Chiesa cattolica ha impiegato qualche secolo a riconoscere che Galileo aveva ragione e la terra gira intorno al sole; lo stato del Massachusetts ha aspettato mezzo secolo dopo la loro morte prima di ammettere che Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti non avevano avuto un giusto processo; e il presidente Clinton e la segretaria di stato Madeleine Albright hanno chiesto scusa per i bombardamenti all’Honduras quarant’anni dopo. Però, in questi anni di risorgente “medioevo”, con la riabilitazione della tortura, la cancellazione dell’habeas corpus, il risorgere delle teocrazie, il ritorno dell’accusa del sangue e revisionismi storici di ogni genere, che un’istituzione rinneghi almeno la schiavitù è a suo modo confortante.

La schiavitù evoca immediatamente immagini di orrore: la frusta, lo sfruttamento nei campi di cotone, le violenze sulle donne, le famiglie fatte a pezzi, i cani alla caccia dei fuggiaschi nelle paludi… Eppure, nel più importante romanzo moderno sulla schiavitù, Toni Morrison sceglie di rappresentare una piantagione modello, con un padrone umano che tratta gli schiavi come persone e non come cose – e lo fa per sottolineare un orrore più profondo, che sta nell’esistenza stessa dell’istituzione schiavista, negli Stati Uniti e altrove: la riduzione legale di un essere umano a proprietà un altro essere umano, giuridicamente equiparabile a un mobile o a un cane.

“Fummo tutti allineati insieme per l’inventario,” scrive Frederick Douglass, nella sua memorabile autobiografia di ex schiavo (1844): “Uomini e donne, giovani e vecchi, sposati e celibi, tutti messi in fila con I cavalli, le pecore, i maiali. C’erano cavalli e uomini, buoi e donne, maiali e bambini, tutti collocati sullo stesso piano di esistenza, e tutti soggetti allo stesso accurato scrutinio….”

Anche se il trattamento non è inumano, allora, questo dipende solo dalla soggettività del proprietario, che può cambiare ida quando gli pare. Non impedisce il fatto che, con il passaggio della proprietà ad altri, ricomincino gli orrori.

Perciò, quelle che non senza ragione chiamiamo le moderne forme di schiavitù (e ce ne sono, in certi campi di lavoro nascosti in Florida, e in tante parti del “terzo mondo”) hanno in comune le violenze e le costrizioni, ma somigliano più a carceri, campi di lavoro forzato, lager che alla schiavitù in senso stretto: manca l’orrore freddo della proprietà dell’uomo sull’uomo. E sono fuori legge; la schiavitù per cui chiede scusa il parlamento della Virginia era non solo legale, ma era la pietra angolare di una società intera, in un paese per altri versi alfiere di libertà.

In Kentucky, un anziano signore, proprietario di miniere e discendente di piantatori dell’Alabama, mi mostra con orgoglio il libro-inventario della piantagione dei suoi avi, redatto in occasione della divisione della proprietà per eredità. Ben incolonnati, ci sono i nomi degli schiavi, età, valore di mercato e una colonna di commenti. Accanto a qualche nome c’è scritto “ruptured,” rotto; non c’è scritto né come né perché, ma solo che il suo prezzo cala in proporzione. Guarda caso, questo signore e suo padre sono stati gli ultimi proprietari di miniere in America ad accettare di firmare il contratto col sindacato minatori: le eredità della schiavitù durano a lungo.

In un altro straordinario romanzo recente, Legame di sangue, Octavia Butler immagina una protagonista risucchiata nel tempo dalla California di oggi alla Virginia schiavista. Quando finalmente riesce a tornare indietro, lascia letteralmente un braccio, strappato dal suo corpo, laggiù in quel passato: se il viaggio nel tempo è una metafora della memoria, allora quel braccio rimasto nel passato significa che in quel passato ci stiamo ancora dentro, che è un pezzo di noi. Legami di sangue, appunto: non solo sul piano letterale, derivanti dalle violenze dei padroni sulle schiave, ma su un piano più profondo, per cui la schiavitù non è solo una trauma nella storia dei neri ma sta dentro le vene dell’America intera. Non basta un voto in parlamento per liberarsene.

“In quel momento,” scrive Douglass commentando la scena dell’inventario, “vidi più chiaramente che mai gli effetti disumanizzanti della schiavitù tanto sullo schiavo quanto sullo schiavista.” Sono intuizioni come queste che fanno della sua autobiografia un capolavoro. Perché Douglass si rende conto che, mentre negano giuridicamente che gli schiavi siano esseri umani, i padroni sanno benissimo che lo sono; e allora, per negare la loro umanità devono sopprimere anche la propria. Ed è in questo effetto disumanizzante sull’aguzzino che la piantagione somiglia a tutte le situazioni in cui una persona ha potere totale su un’altra, e può prendere un prigioniero iracheno e metterlo al guinzaglio insieme ai cani, neanche per “valutarlo” ma per divertirsi.

Per questo, chiedere scusa per la schiavitù va bene, ma bisogna pure trarne le conseguenze, e dire basta a tutte le situazioni del genere – cosa che il parlamento della Virginia si guarda bene dal fare. E poi, come in tutte queste richieste di scuse che abbiamo visto negli ultimi tempi, l’atto di chiedere scusa dovrebbe accompagnarsi al fare qualcosa per rimediare, se possibile, gli effetti dei crimini passati. La casa di produzione di Spike Lee si chiama “40 Acres and a Mule,” in ricordo della promessa non mantenuta di un po’ di terra e un mulo per coltivarla fatta agli ex schiavi dopo la guerra civile. Non alla lettera, certo, ma forse sarebbe ora di darglieli, questi quaranta acri, o il loro equivalente moderno: quaranta acri di giustizia, di uguaglianza, di cittadinanza, di rappresentanza politica. Nel corso del tempo, i discendenti degli schiavi hanno strappato molte conquiste ai discendenti degli schiavisti; sarebbe il caso di portare a termine l’opera, coi fatti e non con le parole.

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