19.8.10

La passeggiata (di Tommaso Landolfi).

La passeggiata fa parte dei Racconti impossibili, che Tommaso Landolfi pubblicò nel 1965. Vi ho aggiunto il commento che ne fece Italo Calvino nella postfazione all'antologia di Landolfi che curò per la BUR nel 1989. Ma una sorta di autocommento ne aveva fatto landolfi stesso nella Conferenza personalfilologicodrammatica che inserì nella raccolta Le labrene. (S.L.L.)
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La passeggiata
Lonchite

La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po' gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l'effetto di un malagma o di un dropace! Meglio uscire, pensai invertudiandomi, farò magari due passi fino alla fodina. In verità siamo ormai disavvezzi agli spettacoli naturali, ed è perciò da ultimo che siam tutti così magoghi e ci va via il mitidio. Val proprio la pena d'esser uomini di mobole, se poi, non che andarsi a guardare i suoi

magolati, non si va neppure a spasso!.

Basta. Uscii dunque, e m'imbattei in uno dei miei contadini, che volle accompagnarmi per un tratto. Ma un vero pigo! In oggi di quegli arfasatti e di quelle ciammengole o manimorce, ve lo so dir io, non se ne trova più a giro; né servon drusce per farli parlare, ma purtroppo hanno perso anche la

loro bella e pura lingua di una volta. Recava due lagene.

- Dove le porti?

- Agli aratori laggiù: vede, dov'è quell'essedo. C'è il crovello per loro.

- E il mivolo, o il gobbello?

- Bah, noialtri si fa senza.

E meno male che non avete al tutto dimenticato la vostra semplicità, pensai.

Ma volevo scatricchiarmi; finalmente lui andò pei fatti suoi e potetti rimaner solo, e presi per una solicandola.

Che dirvi? quando mi trovai tra quei miei piccoli amici senza parola, lo gnafalio, il telefio, il mezereo, e tutta quella gualda, mi si aprì il cuore. Procedetti, e principiarono i camepizi, le bugole, gli ilatri, i matalli, gli zizzifi anche, benché, a vero dire, guasti alquanto dall'exoasco o dall'oidio; e zighene e arginnidi (pafie o latonie) e le piccole depressarie passavano di luogo in luogo; e, accanto o sopra me, trochili e peppole, parizzole e castorchie, e l'aria era tutta uno zezzio, un zinzilulio. E c'era poi il popolo minore: le smicre, i lissi, l'empidi medesime, e chi potrebbe noverarlo tutto!

Alla fodina ormai l'acqua da tant'anni stagnava: rabeschi di gigartina, fumoso trasparire di carta, e zannichellia e scirpo; giungendo io, tre farciglioni fuggirono, e balenò un cimandorlo. Ma era destino che neppur qui fossi lasciato tranquillo. Sentii frusciar la frasca alle mie spalle; mi volsi: il gignore del ferrazzuolo che sbiluciava.

- O tu? Beh, che si fa di bello al distendino?

- Uhm, poco di bello: il padrone s'è dato piuttosto alla moatra.

Anche questo! Io non sono un lerniuccio, ma via.

- Già, - riprese, - da noi ora è troppo se si fa fernette; mancano perfin le

ingordine.

- Bravo davvero il tuo padrone!

- Mah, si sa bene, quando la s'infaona.

- E qui ora che ci fai?

- Per via dei leucischi. Ci si buttaron noi anni addietro.

- Ah, ecco; e come.

- Coi prostomi e colle molleche, - rispose pronto.

Non era un caramogio, come non era uno sbiobbo, s'ha a dire. Ma io lo lasciai lì e mi spinsi innanzi per la lonchite. Sapevo che da un certo punto si scopriva una bella vista.

Ed eccolo laggiù, il gran padre; e perfino si scorgevano brillare i froncoli quando prendevano il sole. E v'era una checchia venuta di lontano, con tanto di bonette all'ipartia. Quanti pensieri, quante fantasie m'invasero allora! Usava più il chenisco? Oh tempi d'una volta: "Inguala!", e via per iciche,

per mocaiardi, per cheripi, per lanfe. E qualcuno moriva in terra straniera, ma la chernite ne riportava intatte le spoglie al paese natale: o aveva anch'essa ormai perso la sua virtù?

Ah, s'era fatto tardi: sull'afaca e sulla ghingola compariva la trochilia, sull'atropa l'atropo, sull'agrostide l'agrostide; dove pur mò sfolgorio di sole, non era ormai che un ghimè; si diffondeva odor di nectria; s'udiva un ghiattire lontano. E così passo passo me ne tornai.

- Or mentre io fendo i sisimbri e finché sia giunto a casa, dimmi o amico lettore: son io poco un ghiargione? Tu non rispondi, e con ciò assenti; e non hai torto. Pure, non ne darei un ghieu di chi non sapesse empirsi gli occhi e l'anima come io feci quel giorno, o, sapendo, volesse tenersi ogni

cosa per sé solo.

Ma ecco giunsi: la mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava, se non quella stessa, una bozzima.

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Il commento di Italo Calvino

Si prenda un testo emblematico come La passeggiata. Le frasi sono costruite a base di sostantivi e verbi incomprensibili, come uno di quegli esperimenti di finta significanza di un lessico inventato, tipo il Lewis Carroll del Jabberwocky. Fosse così, sarebbe un divertimento non nuovo, e di poco sugo. Invece, basta che il lettore si prenda la briga di consultare un buon vecchio dizionario della lingua italiana (Landolfi usava lo Zingarelli) e scoprirà che le parole ci sono tutte. La passeggiata è un testo con un senso compiuto: solo che l’autore si è posto come regola d’usare il massimo possibile di vocaboli caduti in desuetudine. (Egli stesso, in un volume successivo, non seppe resistere alla tentazione di svelare il segreto, per sbeffeggiare quelli che non ci erano arrivati). Dove si vede che il “fumista” Landolfi è poi l’ “antifumista” per eccellenza. ridà significato (il significato) alle voci che l’avevano perduto (e invece di lasciare il volgo illetterato nell’errore, si prende la briga di spiegare pazientemente cos’ha fatto).

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