31.8.10

Pd. La purga.


Nel Pds – Ds - Pd hanno convissuto e convivono almeno due progetti e dell'Ulivo ci sono state date due interpretazioni.

Primo progetto (D'Alema e dintorni): una sinistra moderatissima si allea con un centro e ottiene la maggioranza, eventualmente utilizzando come forza di complemento la sinistra radicale che può avere incarichi, può dissentire, ma non deve contare nulla.

Secondo progetto (Veltroni e simili): un grande “partito di centro che guarda a sinistra” (come la Dc di De Gasperi) e che con la sua “vocazione maggioritaria” e il suo “progetto”, ultramoderato, sfida la destra sul terreno del governo, anche usando leggi elettorali tagliapiccoli.

I due progetti da quindici anni circa si combattono in uno scontro alimentato da rancori personali, da ambizioni di potere, da faide locali, ma sono oggi tutti e due al capolinea, impraticabili e velleitari.

Va aggiunto che essi sono due varianti della stessa idea: quella per cui le elezioni si vincono “al centro” con una linea politica moderata nel campo dell’economia e degli stessi diritti civili, che non disturbi i poteri forti nazionali (la finanza, le Banche, gl’industriali, i grandi costruttori, il Vaticano) e internazionali (gli americani). C’è una continuità tra il D’Alema che esalta come “capitani coraggiosi” Colaninno padre e gli altri acquirenti speculativi della privatizzata Sip-Telecom e Veltroni che mette in lista il di lui figlio o addirittura Callearo, un falco di Confindustria, tra i più feroci nel pretendere la libertà di licenziare.

Questo moderatismo nasceva da una realtà di fatto non meramente nazionale, da una fase nuova della storia europea e mondiale.

Già negli anni 80 la crisi dell’Urss e del suo “socialismo reale” e la caduta verticale della sua forza di attrazione aveva messo in discussione il “compromesso sociale” che nei principali paesi europei il padronato aveva a malincuore accettato. Era il tempo della “rivoluzione neoliberista” di Reagan e della Tatcher e delle più prudenti operazioni di taglio dello Stato sociale che si svolgevano in Francia o in Italia.

Dal 1989 il crollo dell’impero sovietico e, poi, la fine ignominiosa dell’Urss, realizzando una sorta di “controrivoluzione di massa”, sanciscono una forte egemonia ideologica del nuovo individualismo liberista che si esercita sugli stessi strati popolari, sullo stesso mondo operaio. L’espansione dello Stato sociale, avvenuta nei decenni precedenti, viene bollata come una sorta di “sovietizzazione”, come un frutto bacato del “socialismo reale”, come fonte di burocratizzazione, sprechi e privilegi, come ostacolo alla libertà. Solo in Germania, ove il costoso processo di unificazione richiede una forte guida politica, lo smantellamento dei diritti e delle tutele sociali è più prudente e non è accompagnato da una campagna contro lo “statalismo” diffusa ed insistente come altrove.

Ai gruppi dirigenti diffusi della socialdemocrazia europea (includendovi anche il Psd-Ds, che in quel campo era in qualche modo approdato dopo la “svolta” di Occhetto) si prospetta pertanto un dilemma: “conservare” la funzione principale di rappresentanza del lavoro dipendente, scontando le difficoltà della fase e proponendosi una lunga e difficile resistenza quasi certamente dall’opposizione, oppure accentuare il carattere interclassista che avevano nel tempo assunto per proporsi al potere economico come gli artefici di una “rivoluzione liberista” senza traumi e senza scontri sociali, nel nome della modernizzazione.

Questa seconda linea, sembrava trovare una conferma internazionale fortissima nell’Inghilterra post-tatcheriana con i successi del “narciso” Blair e negli Usa con la vittoria di Clinton ed era corroborata dalle teorie della “terza via” di Giddens ed altri.

Dalemiani e veltroniani, pur odiandosi, hanno insieme guardato a questi modelli per una politica che affidava al “centrosinistra” il compito di fare la politica della destra meglio della destra: privatizzazioni, tagli allo Stato sociale, flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro, riduzione di diritti e tutele per i lavoratori dipendenti privati e pubblici.

Si ricordi che la legge Treu sul lavoro tipico viene prima della Maroni-Biagi e che perfino su questioni delicate come l’immigrazione o l’interventismo militare i dalemian-veltroniani hanno fatto da apripista. La Turco-Napolitano non ha forse i presupposti xenofobi della Bossi-Fini ma sono i Cpt i capostipiti dei Cie. La concessione di basi per i bombardamenti di Belgrado alla Nato sotto il governo D’Alema cercava giustificazioni nella “guerra umanitaria”, ma rese più facile l’intervento in Afghanistan (che il grosso dei Ds votò) e in Iraq.

Tra i seguaci di Baffino e quelli di Uolter le tattiche volte alla conquista di poteri e prebende per la propria banda potevano essere diversi, ma una comune bussola governava l’agire politico e le linee d’azione dei gruppi dirigenti del Pds-Ds e poi anche del Pd: la convinzione che l’unico mondo possibile fosse quello del capitalismo globalizzato con la sua pervasività e che il compito delle “sinistre di governo” o del centrosinistra fosse di governarlo meglio per renderlo più accettabile.

Non ho difficoltà ad ammettere che queste teorizzazioni e queste pratiche non erano campate in aria o frutto di tradimenti individuali. Nascevano da una sconfitta storica, la sconfitta del comunismo del XX secolo e dello statalismo che aveva accomunato comunisti e socialdemocratici, e dalla conseguente diffusa sfiducia dei ceti popolari nelle antiche parole d’ordine. Per esempio le campagne per la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi presentate come campagne di libertà (la privatizzazione dell’Enel, la libera scelta tra pubblico e privato nella sanità, il buono scuola, ecc.) hanno attecchito a lungo anche tra lavoratori e pensionati poveri. Chi ha un minimo di senso storico sa che la sconfitta subita nel Novecento da un progetto come quello comunista, che aveva attivato e mobilizzato milioni e milioni di donne e di uomini in una speranza collettiva di trasformazione, lascia tracce profonde nella memoria collettiva, ferite che non si rimarginano in pochi anni.

Né deve meravigliare che i gruppi dirigenti del Pds-Ds, che, a differenza di altre forze della “sinistra di governo” europea, venivano da un partito comunista, si mostrassero talora più pronti a staccarsi dalle antiche parole d’ordine, per far dimenticare una sorta di peccato originale. La pesantezza della sconfitta delle sinistre stataliste nate dal movimento operaio è del resto confermata dal fatto che i nuovi movimenti di contestazione, i cosidetti “no global”, sembravano fuggire dalla politica, dal potere e dal governo. Qualcuno dei loro teorici arrivò a sostenere che il mondo si cambiava più facilmente e meglio senza prenderlo, il potere.

La grande crisi del 2008 ha cambiato lo scenario, nel mondo e in Italia. In America Obama vince le elezioni su parole d’ordine che in quel contesto appaiono di estrema sinistra: una riforma sanitaria che introduca una assicurazione e una garanzia pubblica, il controllo più stretto su banche e finanza, più assistenza sociale, un intervento statale in economia anche per correggere il modello di sviluppo ambientale. E’ su questa linea che sconfigge nelle primarie il moderatismo clintoniano. Vedo che il presidente Usa, per scelta o per gli ostacoli frapposti, sembra aver annacquato le sue proposte. E vedo delusione in America e in Europa per una politica estera che resta imperiale (né poteva essere altrimenti). C’è il rischio che in Usa le elezioni riaprano le porte a una destra incattivita, che contro la crisi potrebbe perfino usare l’arma della guerra.

In Italia la grande crisi ha prodotto uno stato confusionale nelle sinistre che avevano puntato sulle “magnifiche sorti e progressive” del nuovo capitalismo globalizzato. Oggi la destra, nel tentativo tutt’altro che facile di stabilizzare l’economia, spregiudicatamente usa lo Stato e le sue articolazioni per far pagare i ceti popolari e gran parte dei ceti medi, per togliere diritti e libertà giudicati costosi. Gli uomini della “sinistra di governo”, un tempo grandi convertiti ai fasti del “mercato”, mentre Tremonti spara a zero sul “mercatismo”, non sanno più chi sono e chi rappresentano. Le difficoltà e contraddizioni della destra nel governare la crisi, anche per il peso della centrifuga Lega e per l’inaffidabilità e per il sistemico conflitto d’interesse del suo capo attuale, sono evidenti. La guerra Fini-Berlusconi ne è manifestazione ma anche occultamento. Ma il Pd non riesce a fare una proposta.

Avrebbe davanti a sé più di una scelta plausibile, ma si incarta nelle sue antiche contraddizioni e nelle sue guerre tra bande. Il giovane Renzi, per uscire dal marasma, ha proposto la purga generalizzata degli anziani e l’altrettanto generalizzata promozione dei quarantenni. Sarebbe una proposta saggia se i quarantenni, nella lettura dell’economia e della società, fossero portatori di un’altra cultura, di un’altra linea. E invece no. Il loro approccio resta quello illusorio e fantastico di prima della crisi. I vecchi, orfani del Pci, continuano a vergognarsi del loro padre, i giovani sono anche loro orfani, di madre ignota. Il Pd è destinato a morte. Penso che sarebbe meglio per la sinistra e per moltissimi in Italia che non muoia di morte lenta, di convulsioni interne, quanto per effetto di un esterno uragano che ne travolga le strutture e costringa i suoi militanti e i suoi dirigenti migliori a un nuovo inizio.

30.8.10

Una lettera dalla Sicilia del vicerè Caracciolo (1781)

A Ferdinando Galiani
Palermo, 21 decembre 1781
Eccomi, caro amico, relegato sur les arides bords de la sauvage Sicile, e sono occupato toto Marte a procurare il ben pubblico. Ma incontro difficoltà grandi e des entraves ad ogni passo, e forse le più forti derivano da un vizio del governo medesimo. Tanti fori, tante giurisdizioni, tanti ordini e dispacci opposti da codeste segreterie, tanta debolezza e connivenza nel ministero, tanta rilasciatezza di disciplina e tanto disprezzo delle leggi farebbero cadere le braccia al Cristo. Oltre che, il paese di se medesimo è male organizzato. E’ abitata la Sicilia da gran signori e da miserabili, vale a dire è abitata da oppressori e da oppressi, perché la gente del foro servono qui da strumento d’oppressione. Il papa del foro siciliano è il presidente Airoldi, barbaro e ignorante come tutti gli altri, però scaltro, souple, immorale, indifferente al sì e al no…
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Postilla
I cinque anni di governo del vicerè Caracciolo (1781-86) in Sicilia segnano il più coraggioso tentativo di smantellamento del feudalesimo e di riforma politica e sociale nell’isola in epoca borbonica. Il Consiglio d’Egitto di Leonardo Sciascia ne rappresenta, in forma a mio avviso insuperabile, la grandezza e il fallimento.
Domenico Caracciolo (1715 – 1789), da ambasciatore del regno di Napoli, aveva soggiornato a lungo a Parigi e lì aveva frequentato, tra gli altri, D’Alembert, D’Holbach, Helvetius e Necker. Questa lettera, che racconta la prima presa di contatto con la Sicilia, è diretta all’abate Galiani, anche lui frequentatore parigino del milieu illuministico, economista fisiocratico e autore di un trattato Sulla moneta e di Dialoghi sul commercio dei grani molto apprezzati e discussi.

Libertà di stampa. Pietro Nenni ricorda.

Ricordo gli ultimi anni di vita dell’ “Avanti!” dall’avvento della dittatura fascista fino alla soppressione della stampa di opposizione nel 1926. Nelle situazioni disperate – e ogni giorno portava motivi di disperazione – andavo a bussare alla porta delle cooperative di consumo di Milano o di Torino, a quelle di Nullo Baldini a Ravenna o di Massarenti a Molinella, in casi estremi alla “Garibaldi” di capitan Giulietti e qualche biglietto da mille (le mille di allora!) si racimolava sempre. Le sottoscrizioni erano anche – e sono ridiventate per la stampa di alcuni gruppi di estrema sinistra – un fatto politico: intere pagine di nomi e cognomi a sfida del potere; la sottoscrizione al posto dell’articolo di fondo come risposta a chi ci voleva morti. Sono metodi da ristabilire su più vasta scala. Sono una forma di partecipazione alle lotte sociali e politiche. Sono, a modo loro, un terreno di competizione civile.

In Intervista sul socialismo italiano a cura di Giuseppe Tamburrano, Laterza 1977

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Postilla

Questa testimonianza, e la considerazione politica che la conclude, dall'intervista di Nenni a Tamburano, assai bella, le propongo come viatico per la nuova, decisiva prova che da settembre affronterà "il manifesto" nella speranza che non finisca come finì allora. Sono parole di un grande giornalista, forse il più grande giornalista di sinistra del 900 (ma con Pintor è una bella gara!).


La poesia del lunedì. Gianni D'Elia (Pesaro, 1953)

C'è, nella cottura delle cose, una -lo sai bene-

odorosa metamorfosi, quasi la cucina

fosse una morgue dove si rianimano

-

in forma di odore le vivande morte,

una sala operatoria che profuma, insieme,

della carne tagliata, rosolata, delle scorte

-

dei molluschi che s'aprono nei gusci,

rilasciando la loro acqua marina

in un vapore d'olio e aglio che li avvolge;

-

come lo sfarsi, al taglio di verdure,

della forma del frutto, nel colore

che spicca e di sé macchietta il tegame,

-

ogni pomodoro fatto a pezzi, ogni

peperone, ogni patata, carota,

mezzaluna di cipolla, ha lo speciale

-

suo segno nell'odore e nel colore

del frammento della cosa iniziale

che frigge e cuoce come un tritume astrale...

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Da Bassa stagione, Einaudi, 2003

Libertini e il Pci. Ovvero il vizietto di aggiustare le vite.


Credevo che il vizietto di aggiustare le altrui vite secondo il proprio comodo, tipico dello stalinismo, fosse scomparso. E invece no! Continua.
Rileggendo ieri, nel bel libro di Maria Attanasio Di Concetta e delle sue donne, del “giovane e marxista barone”, ultimo erede della potente famiglia Libertini, cui “alla fine degli anni quaranta” era stata negata la tessera dal Pci di Caltagirone, mi chiedevo se si trattasse di Lucio Libertini, le cui ascendenze aristocratiche e siciliane mi erano note, ma non nei particolari.
Ne conoscevo assai bene, invece, la biografia politica. Nel segno della sinistra e dell’inquietudine. E qualcosa non mi tornava.
Libertini, nato a Catania, era politicamente attivo a Roma dal 1946 militando - le testimonianze sono concordi - tra i giovani socialisti e poi nella corrente di “Iniziativa socialista” di Mario Zagari e Matteo Matteotti. Si trattava di un’area politica e culturale che non nutriva speciali simpatie per lo stalinismo e il togliattismo. Libertini, per molto tempo da allora in poi, sarebbe stato esponente di una sinistra marxista, radicale nei progetti e nei programmi, ma molto critica nei confronti del Pci, che allora si muoveva dentro la sfera dell’ortodossia sovietica. Mi sono perciò chiesto se il Libertini di Caltagirone fosse un altro o se l’episodio narrato nel libro non fosse da collocare tra il 45 e l’inizio del 46. In questo caso l’espressione “alla fine degli anni quaranta” rientrerebbe nella deliziosa vaghezza dei narratori.
Ho cercato nella rete una soluzione al (piccolo) problema. Non l’ho trovata, non sono cioè riuscito a sapere con certezza se il Libertini di Caltagirone fosse Lucio o un altro. Mi terrò per ora il dubbio: lo scioglierò un’altra volta o lo porterò nella tomba. Nella rete, tuttavia, attraverso Google, ho trovato cose che hanno urtato la mia sensibilità.
Una biografia dell’uomo politico ampia e particolareggiata come la desideravo non c’era; c’erano invece alcune pagine che ne ricordavano con accenti assai simili (e reticenti) l’ingegno e le gesta. L’unica che mi è sembrata rendere merito senza gravi omissioni o falsificazioni alla complessa vicenda politica di Lucio Libertini era in un sito del Movimento Radical-Socialista, ove uno scritto di Giancarlo Iacchini lo colloca accanto “agli altri grandi radicalsocialisti Vittorio Foa e Lelio Basso” : quantunque ne appiattisca le ragioni in una sorta di apologia, non tace i passaggi del suo percorso. (http://www.radicalsocialismo.it/index.phpoption=com_content&task=view&id=104&Itemid=1)
Tra le altre pagine di Internet la più scandalosa mi è parsa quella di Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Lucio_Libertini), l’enciclopedia telematica la cui conclamata obiettività dovrebbe essere garantita dalla compilazione e correzione plurale e cooperativa. Ne riporto qui la prima parte: “Membro della Federazione giovanile del Partito Socialista Italiano, nel 1946 diede vita alla corrente "Iniziativa socialista", favorevole ad un'alleanza con i comunisti. Nel 1958, quando ormai la politica del Fronte Democratico Popolare era già stata abbandonata dai vertici del PSI, scrisse le sue Sette tesi sul controllo operaio, in cui rilanciava la necessità dell'abolizione della proprietà privata”.
E’ un esempio tipico di “falsificazione per omissione”. La corrente “Iniziativa socialista” - si legge – era “favorevole ad una alleanza con i comunisti”. Vero! Ma voleva, appunto, un’alleanza, una associazione tra “diversi”, valorizzando il ruolo autonomo del Partito socialista con critiche estese e generalizzate al modello stalinista di stato e di partito. (Rinvio chi volesse saperne un po’ di più in questo stesso blog al seguente post: (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/palazzo-barberini-una-scissione-di.html ). La politica del Psiup (era questo al tempo il nome del Partito socialista) nel 1946 era quella “frontista” dell’unità e più d’uno aveva avanzato l’ipotesi “fusionista”, del partito unico della classe operaia. Insomma erano Nenni e Morandi i “filocomunisti”, non Libertini e “Iniziativa” che erano semmai erano “acomunisti” e perfino un po’ “antisovietici”.
Anche la frase successiva, quella sulle Sette tesi (che furono scritte insieme a Panzieri, anzi più da Panzieri che da Libertini), è costruita in modo da far apparire Libertini amico del Pci o, almeno, più amico di quanto non lo fossero gli altri dirigenti socialisti che avevano abbandonato la politica del Fronte popolare. Lui invece, figuriamoci, “rilanciava l’abolizione della proprietà privata”, come in Russia. Come se non bastasse la “voce” di Wikipedia salta 10 anni cruciali per Lucio Libertini, tra il 46 ed il 57.
Tra i protagonisti della scissione di Palazzo Barberini con Saragat nel 1947, egli avrebbe, un paio di anni dopo, abbandonato il nuovo partito (Psli), perché subalterno alla Dc e alla Nato: entrò nella magmatica area di dissidenza comunista, socialista e marxista che aveva rapporti con lo scisma del “traditore” Tito, ottenendone qualche (scarso) sostegno finanziario. Poi partecipò, con gli scissionisti del Pci Cucchi e Magnani, alla formazione dell’Unione socialista indipendente, che partecipò alle elezioni politiche del 1953 non apparentata né con la Dc né con Pci e Psi: Libertini era tra i redattori più assidui della rivista del movimento, il Risorgimento Socialista.
Nel Psi Libertini confluì proprio con l’Usi, agli inizi del 1957, quando, dopo i fatti di Ungheria, si era accentuato l’autonomismo dal Pci. Per effetto della confluenza entrò nella redazione di “Mondo operaio”, che, sotto la responsabilità di Nenni, era di fatto guidato dal condirettore Raniero Panzieri. Libertini pertanto non era affatto, come Vecchietti, Valori e altri quadri “morandiani”, un “carrista” (così erano chiamati i socialisti che avevano approvato l’intervento dei carri armati sovietici a Budapest). Tutt’altro. Le stesse Sette tesi non fecero scandalo perché rilanciavano l’abolizione della proprietà privata, cui come obiettivo di lungo termine restava fedele gran parte del Psi (Nenni, ancora nel 1967, criticando il modello sovietico, scrisse “l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio non è sufficiente”), ma perché criticavano da sinistra sia la “programmazione democratica” di cui cominciavano a ragionare “Il Mondo”, La Malfa, Saraceno e alcuni comunisti, sia, ancor più, la pianificazione centralizzata dell’economia di stampo sovietico. Panzieri e Libertini avrebbero voluto che si affermasse, a Est come a Ovest, il “controllo operaio”, dal basso, di tutte le scelte produttive.
Insomma la storia di Libertini è del tutto diversa da quella che Wikipedia non dice, ma lascia immaginare. Ne è riprova quanto successe dopo. Quando, entrato il Psi nel governo, si costituì il Psiup (gennaio 1964), Libertini non confuse mai la sua posizione con quella dei “filosovietici” che governavano il partito e si schierò a sinistra nella nuova formazione, punto di riferimento di un’area politica importante che già allora dialogava con i gruppi del marxismo eretico.
Scrisse in quegli anni Capitalismo moderno e movimento operaio, nelle edizioni Samonà e Savelli, una vera e propria requisitoria da sinistra contro la “coesistenza pacifica”, intesa come spartizione del mondo in sfere di influenza, e contro la strategia delle “riforme di struttura” di stampo togliattiano. Nel 1968, per la stessa casa editrice, pubblicò le Dieci tesi per il partito di classe: questa volta le sue rampogne erano dirette senza mezzi termini a un Pci considerato sempre più interclassista.
Quando, nel 1972, il risultato elettorale negativo portò allo scioglimento del Psiup, Libertini, a sorpresa, si schierò con Vecchietti e Valori per la confluenza nel Pci. Il grosso della sinistra socialproletaria, intorno a Foa e a Miniati, diede invece vita a un Nuovo Psiup per poi confluire con “il manifesto” nel Pdup. La scelta di Libertini non piacque a molti comunisti, tant’è che Luciano Gruppi, un classico intellettuale d’apparato, pensò bene di scrivere una lunga lettera su “Rinascita” che ne ricordava le precedenti posizioni per chiedersi e chiedergli: “Che ci viene a fare nel Pci?”. In effetti Libertini, ch’era un vulcano di idee e un grandissimo lavoratore, fu tenuto per un paio d’anni ai margini degli incarichi dirigenti. Poi nel 1975, eletto consigliere regionale a Torino, entrò come assessore nella Giunta del Piemonte. L’anno dopo fu rieletto in Parlamento.
Il rapporto con il Pci, dunque, fino alla confluenza, fu pertanto tutt’altro che lineare e nel Pci fu sempre guardato con ammirazione e diffidenza. Di questa complessità nella biografia di Wikipedìa non c’è traccia e non c’è neanche in quella che correda la breve presentazione dell’archivio personale di Libertini all’Istituto Gramsci.
La pagina più demoralizzante che ho trovata, in ogni caso, si recupera nel sito “Comunisti a Cesena” (http://www.comunisticesena.it/libertini/lucio-libertini.html). Se non ho capito male doveva essere, prima dell’ultima scissione, il sito del Prc. I post più recenti non so bene chi li cura: sono tutti incentrati sulla difesa della Costituzione e, almeno su questo, vendoliani e ferreriani dovrebbero essere d’accordo. La pagina risale comunque al 2004 e, sotto il titolo Lucio Libertini: una vita per restare comunisti, è firmata Marco Sferini. L’articolessa si ritrova “para para” nel sito Prc di Savona e, temo, in altri ancora. La sua mendace efficacia, dunque, pur riguardando le nostre minuscole sette, tende a dilatarsi.
Libertini è lodato innanzitutto come uno dei padri fondatori del Prc ed è definito “un socialista che si era progressivamente allontanato dal riformismo socialista per chiedere il diritto di potersi dire comunista”. Sferini giustamente inserisce Libertini nel dibattito interno del Psiup e dell’“aspro confronto tra Nenni, Basso, Pertini, Saragat e tutti gli altri leader”. Aggiunge:“Ma queste battaglie interne permisero una crescita culturale a Lucio che divenne, nella sua espressione marxista un convinto sostenitore della teoria leninista dello Stato, del partito e del controllo operaio”. Poi passa alle Sette tesi raccontate alla meno peggio, presentando Raniero Panzieri come collaboratore “per anni” di Libertini (gli anni di collaborazione in realtà non arrivavano a due).
Insomma anche qui, con lo stesso metodo di Wikipedia, si tace sulla scissione di Palazzo Barberini e, forse a maggior ragione, si tace sul “lavorìo” intorno alla dissidenza del Pci con i trotzkisti di Livio Maitan, con i titoisti e con i “magnacucchi” scissionisti, quelli che Pajetta chiamava “pidocchi nella criniera di un cavallo di razza”. Il tutto per una maggiore gloria di Libertini, di cui, ovviamente, si tace l’ultima (deleteria) iniziativa politica interna al Prc, la congiura con Cossutta e Rizzo per abbattere la segreteria Garavini che aveva aperto ad Ingrao.
Sono cose vecchie che non giova rivangare? Forse; ma ancora più vecchio e decisamente più dannoso è l’uso di mutilare le altrui vite, ignorandone le contraddizioni, cioè la ricchezza, per poterli secondo convenienza beatificare o demonizzare.

29.8.10

Processo breve. Tutti han torto. L'articolo della domenica.

Non pochi quotidiani hanno dedicato oggi lo spazio di prima pagina a un botta e risposta tra il ministro Alfano e l’Associazione Nazionale Magistrati, rappresentata dal suo presidente Luca Palamara, a proposito del cosiddetto “processo breve”. “La Stampa” così sintetizza il confronto nel sommario: I magistrati:“Non è una priorità”. Alfano:vogliono che nulla cambi.

La magistratura organizzata pensa insomma che “in un momento nel quale la giustizia è al collasso e si verificano allarmanti episodi di violenza e minacce” , disegni di legge come quello sul processo breve sono una perdita di tempo”. Le reali emergenze - dice Palamara – sono altre e le enumera: corruzione, criminalità organizzata, situazione carceraria, carenza di mezzi e risorse, informatizzazione, snellimento delle procedure”.

Il ministro sbandiera come successi del solo governo la cattura di pericolosi mafiosi a lungo latitanti e la confisca dei beni delle organizzazioni criminali, denuncia l’insopportabile lunghezza del processo penale e accusa la magistratura di comportarsi come una casta privilegiata che difende i propri privilegi.

Chi ha ragione?

La magistratura organizzata ha torto.

Innanzitutto per il metodo. Abbiamo da lungo tempo imparato che il correre dietro alle emergenze è la strada migliore per crearne sempre di nuove. Sappiamo anche che codesta prassi infausta al potere piace, perché ogni potere, incluso quello giudiziario, usa l’emergenza per aver mano libera nella sua azione, attraverso la riduzione della trasparenza e dei controlli.

Ma l’Anm ha torto anche nel merito: la lunghezza dei processi non è certo un’emergenza, ma è di sicuro una priorità, da qualche tempo anche costituzionale, visto che il diritto ad avere resa giustizia in tempi ragionevoli è stato, per ottime ragioni, costituzionalizzato. E’ un diritto fondamentale come il lavoro, la salute, l’istruzione, la libertà di stampa. Stupisce che la bandiera di un sistema giudiziario capace di emettere sentenze definitive in tempi ragionevoli non sia stata impugnata, per esempio, dalla associazione dei familiari delle vittime di Ustica. E stupisce che la critica della lentocrazia giudiziaria sia stata regalata alla destra.

Nel centrosinistra parlamentare solo la pattuglia dei radicali sembra avere la consapevolezza dell’iniquità classista dell’attuale stato delle cose. Ci sono le galere piene di poveri disgraziati, in attesa di giudizio e processati per direttissima. Ma per i reati dei “colletti” bianchi (una gamma vastissima, dalla frode in commercio alla corruzione in atti pubblici, ai reati bancari, all’usura, fino alle e a tante altre spaventose responsabilità per gl’infortuni sul lavoro, tanto per fare pochissimi esempi) le leggi farraginose, le indagini complicate, gli avvocati cavillosi, l’inefficienza del sistema, rendono il processo lentissimo e assai probabile l’impunità nella forma della prescrizione.

Com’è noto il disegno di legge del “processo breve” ha come sua ratio di indicare la durata massima dei processi penali in ciascuna delle sue fasi, distinguendo tra reati con pene previste fino a 10 anni (durata massima tre anni per il primo grado, due per l’appello, uno e mezzo per la Cassazione) e oltre 10 anni (quattro anni il primo grado, due per l’appello, uno e mezzo per la cassazione). Un ulteriore allungamento dei tempi è previsto per i reati di mafia, terrorismo ed eversione per i quali il processo nelle sue diverse fasi può arrivare fino a 10 anni ed essere ulteriormente prorogato. Sono, in realtà, indicazioni di tempo massimo appena decenti: sette anni e mezzo sotto processo per un imputato che può anche risultare innocente e sette anni e mezzo di attesa per le vittime che attendono giustizia sono ancora troppi. Mi pare peraltro che ci sia del vero nella critica che taluni fanno alla “casta” magistratuale e che un tempo era una critica “libertaria”, di sinistra. Non è in discussione la professionalità e la moralità di giudici e procuratori, ma è nelle cose che quanto più numerosa sia la gente sotto processo o in attesa di sentenze, tanto più palpabile sia l’influenza dei magistrati sulla società circostante.

Pertanto, qualunque cosa ne pensino i magistrati, associati e non, una o più riforme che agiscano sinergicamente su più aspetti del sistema, dalla legislazione all’organizzazione, per ridurre drasticamente la durata dei processi bisogna farle prima che si può. E per questo una sinistra che si appiattisce sul “no” dell’Anm e ignora il dolore dei tanti incriminati innocenti o dei tanti poveracci, pensionati, operai, popolani, vittime di raggiri, prepotenze, ingiustizie, i cui autori godono di una sostanziale impunità perché hanno denari, conoscenze e buoni avvocati, non mi piace proprio. E tuttavia, se ha torto la magistratura (e la sinistra che sulla magistratura si appiattisce), i berlusconidi e il loro governo hanno torto marcio, da fare schifo. Il disegno di legge di cui si parla, infatti, è una turlupinatura, un imbroglio colossale (oltre che una legge "ad personam"). Come in una celeberrima fiaba siciliana Berlusconi e Alfano vendono merda spacciandola per miele. La loro infatti è una legge per buttare a mare i processi, non per concluderli in tempi ragionevoli con una sentenza.

Facciamo un esempio. Mettiamo che, per la necessità di accurate perizie e controperizie, per il gran numero di testimoni da sentire, per i rinvii dovuti all’abilità degli avvocati il giudice di primo grado non riesca ad emettere la sentenza contro dei costruttori che hanno risparmiato (e quanto!) sui materiali nella costruzione di case popolari e dei controllori che accettando regali hanno chiuso un occhio sulle loro magagne. Il processo si archivia senza sentenza. Tante scuse agli imputati costruttori che tornano a costruire. Altrettante agli imputati controllori che tornano a (non) controllare. Ma ai parenti delle vittime del crollo, ai tanti che hanno perso casa, suppellettili e ricordi le scuse basteranno?

Altri esempi in forma di domanda. Quanti processi alle grandi industrie responsabili di cancerogeni inquinamenti in vaste aree intorno alle fabbriche si concluderanno nei tempi indicati? Quanti processi alle imprese responsabili di "omicidi bianchi"?

No, questa non è la legge del processo breve. E’ un’altra legge vergogna. La legge della prescrizione anticipata e dell’impunità garantita. Una legge che pertanto non cancella, ma moltiplica l’attuale ingiustizia.

Io credo che vada bloccata. E penso che l’opposizione politica, sociale, culturale, telematica non possa affidare alla magistratura il compito di “resistere, resistere, resistere”, come se si trattasse di un problema corporativo o di una questione di rapporti tra potere esecutivo e ordine giudiziario. Mi augurerei una mobilitazione a più livelli: partiti, sindacati dei lavoratori e associazioni dei consumatori, circoli, gruppi, associazioni culturali, popolo della rete. E, aspettando Vendola, sogno una sinistra che, mentre si oppone alle infamie di Alfano e Berlusconi, propone, per oggi e non per domani, il “processo breve e giusto”, quello che giunge a sentenza, che assolve se c’è da assolvere e condanna se c’è da condannare.

Tripoli 1911. Il volto della guerra (di Luigi Lucatelli, da "l'Unità" 13 novembre 1989).


E’ tornato Gheddafi. Giornali e tv riferiscono: dei suoi movimenti a Roma, della grande tenda, dei cavalli berberi, degli incontri del leader libico con il suo omologo italiano.
Qualcuno mette a confronto l’ego dei due per vedere chi ce l’ha più grande. Qualche altro, per fortuna, chiede conto all’uno e all’altro del trattamento dei “respinti”, degli immigrati fermati in mare e inviati in Libia, persino quando avrebbero diritto all’asilo politico previsto dal diritto internazionale. E’ qui si apre un’altra gara: se producano più strage di legalità e di umanità i lager di Berlusconi o quelli del suo omologo libico.
Sulle condizioni delle persone in questi inferni abbiamo visto arrivare negli ultimi giorni sulla rete testimonianze e denunce che producono orrore, disgusto e rabbia. A questo blog vorrei perciò dare un altro compito. Gheddafi, prima della trionfale riappacificazione propiziata da D’Alema e realizzata da Berlusconi, aveva spesso rievocato e condannato con parole durissime la brutale aggressione italiana alla Libia nel 1911 e la pesante occupazione coloniale, contro cui per lungo tempo si era sviluppata una forte e duratura resistenza indigena. La repressione italiana, con le condanne a morte, le massicce deportazioni, i campi di concentramento, fu tra le più sangunose e devastanti.
Per ricordare l’invasione italiana della Libia ho recuperato una vecchia pagina de "l’Unità", del 13 novembre 1989, curata da Wladimiro Settimelli. L’organo del Pci, infatti, riproponeva una rappresentazione dal vivo dei giorni “gloriosi” del 1911, pubblicando una campionatura breve, ma significativa di un “instant book” dell’epoca, opera di un giornalista e uomo di lettere, collaboratore di vari quotidiani e riviste ma non molto famoso, che raccontò le vicende della guerra appena rientrato da Tripoli con il primo ricambio di truppe.
Si firmava Luigi Lucatelli, ma il suo vero nome era Oronzo E. Marginati e della sua storia personale, soprattutto dopo il rientro dalla Libia, Settimelli nulla dice. Con qualche ricerca in Internet ho appurato che morì nel 1915, poco più che quarantenne e che di lui piacquero soprattutto i racconti umoristici.
Ben poco di umoristico c’era invece nel libretto antologizzato da “l’Unità” , Il volto della guerra, edito dalla Casa editrice Carra & Bellini, il racconto, dopo la conquista italiana di Tripoli, dell’inaspettato attacco dalle oasi con la strage dell’11° Reggimento Bersaglieri e della rappresaglia dell’esercito coloniale.
Lucatelli-Marginati – lo spiega nella prefazione - è entusiasta sostenitore dell’avventura libica, che, a suo dire, si collega al Risorgimento, vendica Adua e porta la civiltà (così scrive in linguaggio aulico dai toni romantici), ma dalle sue pagine, nonostante l’ideologia colonialistica, emerge un sentimento di pietà non solo per i morti italiani, ma anche per i condannati a morte libici. La rappresentazione della verità della guerra ne coglie, anche involontariamente, l’ingiustizia e l’orrore e s’incontra con un diffuso sentimento popolare. Sarà forse questa la ragione del “notevole successo” che ebbe al suo tempo il libretto. Riporto qui tre brevi brani sulla rappresaglia italiana. I titoli sono miei (S.L.L.)

In un cortile
Lo conduciamo fuori, in un piccolo cortile bianco e deserto, pieno di sole. C’è un azzurro meraviglioso, e centinaia di uccelletti garriscono tra le palme, a volte. Poi si è fatto un silenzio mirabile, un silenzio caldo ed estatico.
- Pronti! ha mormorato il sergente…- Il rumore della fucileria ha fatto volar via gli uccelletti, con grida spaventate, l’uomo è caduto in ginocchio, con le mani innanzi…
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Nelle viscere della terra
Se ne sono fucilati dappertutto. A Bu- Melianah c’era una fossa enorme, in cui si scendeva per un declivio angusto, una fossa scavata nel terriccio morbido e caldo, che aveva un sinistro aspetto di ferita gigantesca.
Gli uomini vi venivano gettati dall’alto, poi un soldato scendeva giù per declivio e si udiva una serie di colpi sordi, come sparati nelle viscere della terra.
E il soldato risaliva, solo.
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Come una schiera di fantasmi
Accompagnati dagli zaptiè, tra due file di solfati, i 14 prigionieri sono giunti, bendati, ai piedi del patibolo con un calpestio di piedi nudi striscianti nel fango, un borbottio di voci sospirose.
Li abbiamo intesi venire di lontano, nella notte, e tutti, abbiamo inteso, insieme, che il nostro cuore batteva profondamente, in una inesplicabile pena.
Li hanno fatti salire sopra un’asse mobile, poi gli zaptiè hanno aggiustato loro al collo il capestro. Allora quella sinistra fila di figure bianche erte nelle tenebre come una schiera di fantasmi ha cominciato a singhiozzare con piccole voci gementi. Due si sono chiamati fra loro, nel buio, disperatamente.
Un vecchio ha levato il volto bianco nell’albore cinereo della prima luce, e ha detto con infinita tristezza: - Allah… Sidi Allah – Dio, signore Iddio.
Poi la tavola è caduta con un tonfo sordo: s’è fatto un silenzio orrendo, e tutta la schiera è piombata in basso, dondolando nella penombra…

1945. Edda Ciano, lo spione, il comunista.


Nel 1945 Allen Dulles guida la rete dello spionaggio Usa in Europa, ma il suo ruolo ufficiale è di assistente dell’ambasciatore in Svizzera. Nella confederazione alpina è riparata e si trova ancora, sul finire di giugno, anche Edda Mussolini che, il 30 di quel mese, gli scrive. Due lettere in un solo giorno.
Le ha recuperate dagli archivi dell’Office of Strategic Services (OSS) e diffuse in rete ieri lo storico siciliano Giuseppe Casarubbea (http://casarrubea.wordpress.com/2010/08/28/edda-ciano-caro-signor-dulles/#more-7079 ), che con gli archivi Usa ha grande familiarità per i suoi studi su Portella della Ginestra e sulla “storia segreta” o, per meglio dire, “occultata” del nostro paese.
Dalles aveva avuto rapporti con Edda, l’aveva aiutata a conservare, microfilmandoli, i Diari del marito, forse anche per controllare che non contenessero rivelazioni sgradite all’Amministrazione statunitense. Lo scopo delle lettere che adesso la vedova Ciano invia all’agente segreto è evitare l’espulsione dalla Svizzera. La vedova Ciano, a quella data, non è ancora ricercata in Italia, ma teme, in caso di rientro pericoli per la sua vita e chiede aiuto al grande spione: “Lei è probabilmente al corrente del fatto che il Governo svizzero sta facendo del suo meglio per espellermi. Perché? E’ un mistero. Non sono un criminale di guerra (e come potrei?). Il Governo italiano non ha richiesto la mia estradizione. E in vita mia non ho mai fatto nulla contro la Svizzera, un Paese che non ha il diritto di comportarsi in tal modo. Ma ormai ho smesso di cercare di capire ciò che è giusto e ciò che non lo è. E non posso dannarmi fino alla morte. Tuttavia, se la Svizzera dovesse rispedirmi in Italia, conoscerei in breve il significato della morte”.
Chiede aiuto anche per la famiglia del duce, filosofeggiando: “Mio padre ha pagato. Si è trattato dell’unica, logica conclusione di una vita straordinaria. Anche se non ce la faccio proprio a pensare allo spettacolo di Piazzale Loreto. In ogni modo, gli idoli non possono che cadere rovinosamente quando il popolo non crede più in loro. Vengono fatti a pezzi dalla medesima folla – stupida e cieca – che era solita adorarli. […] tenti di salvare il resto della mia famiglia. Almeno, mio fratello Romano, mia sorella Annamaria e mia cognata con i suoi tre figli. Sono tutte persone innocenti e pure, come l’acqua che sgorga dalla sorgente, per la sua parte del tutto innocente riguardo alle tragedie d’Italia”. Su Rachele e Vittorio è tranchant (“non sono che degli stupidi”), ma anche per loro chiede protezione.
Per accattivarsi la benevolenza del destinatario Edda fa riferimento alla pubblicazione dei diari del marito, alludendo alla gloria che probabilmente ne deriverà a Dulles, e confessa il sogno di trasferirsi negli Usa, dove i figli avrebbero potuto “diventare cittadini americani”.
Non so se la protezione americana venne accordata, ma alla famiglia Mussolini nel complesso non andò male e, alla fine, a “donna Rachele” fu perfino corrisposta la pensione come vedova di un “presidente del Consiglio dei Ministri”. Sulla Svizzera l’intercessione di Dulles, se ci fu, non funzionò. Edda Mussolini Ciano tornò in Italia e a settembre fu inviata al confino di Lipari. Di questo confino l’anno scorso raccontò un libro di Marcello Sorgi pubblicato da Rizzoli dal titolo Edda Ciano e il comunista. E’ la storia di un amore che si trasforma in amicizia, corredata da lettere e foto.
“La sorvegliata speciale numero 1” (così si definiva) giunge a Lipari molto provata e in cattiva salute, ma trova un uomo: Leonida Bongiorno, dirigente del Pci locale, antifascista per una solida tradizione familiare (suo padre, nel 1929, era tra gli organizzatori della fuga da Lipari di Carlo Rosselli ed Emilio Lussu, confinati nell’isola). La relazione è intensa, anche se nessuno dei due cambia idea politica. Quando, grazie all’amnistia Togliatti, la Mussolini lascerà l’isola, lontananza e gelosia a poco a poco corroderanno l’amore, ma Edda continua a scrivere: “Mio carissimo e unico comunista”.
Il libro è ricco, ben scritto e connette con tocco efficace tragedie collettive e destini personali. Per chi ama il genere è assolutamente da leggere, anche se l’ultimo Sorgi commentatore giornalistico mi piace sempre meno. Lo vedo sempre più allineato con i suoi datori di lavoro di Confindustria, terzista ma estremamente riguardoso verso il Cavaliere, specie per i donativi e le leggi a pro del padronato; lo sospetto in malafede. Almeno un po’.

La sezione del Pci a Caltagirone (di Maria Attanasio)

Come promesso propongo un altro brano, nostalgico q.b., dal libro di Maria Attanasio Concetta e le sue donne. Per notizie sul libro, di cui torno a consigliare l’integrale lettura, vedi il post La parola “comunista” http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/08/maria-attanasio-le-tenebrose-risonanze.html

Per una strana ironia, un tempo, nei centri urbani di antica nobiltà, le sezioni del Partito Comunista erano spesso allocate in vecchie e aristocratiche dimore.

A Caltagirone il passato feudale e il futuro rivoluzionario si congiungevano senza soluzione di continuità in un’ala del palazzo Libertini San Marco, appartenuto a una potente famiglia a uno dei cui ultimi discendenti – un giovane e marxista barone – alla fine degli anni quaranta, dopo un periodo di prova, era stata negata la tessera: un infiltrato, era stato il sospetto della Segreteria, composta da edili e contadini che, dopo millenni di rivolte e jaqueries, solo da pochi anni avevano occupato le terre e diviso i feudi.

Nelle ampie stanze della sezione tracce dell’antico splendore – frammenti di affreschi, stemmi e corrosi stucchi – si mescolavano a gigantografie di Lenin e di Togliatti, a bandiere rosse e striscioni arrotolati in un angolo, o appoggiati a un marmoreo caminetto.

La sede era sempre impregnata del ristagnante odore – tipico di tutte le vecchie sezioni del Piccì – di un’umanità che in quelle stanze trascorreva gran parte della giornata: compagni pensionati che fin dalla mattina lì ci andavano per leggere e commentare le notizie del giornale, o giocare a scopone scientifico. Quando c’era bel tempo si sedevano nella grandissima terrazza, davanti a un paesaggio di tegole, campanili, di case fitte una sull’altra, a riscaldarsi al sole o a guardare il profilo mutevole della città: di giorno somigliante a un acquattato rapace, di sera raccolto a presepe, e quando la nebbia parzialmente l’avvolgeva, a traballante veliero col suo anonimo carico di morti e di morenti.

Gli esordi teatrali di Vittorio De Sica

Al provino con la Pavlova aveva avuto momenti di panico. Alla domanda dell’attrice: “Recitami qualcosa” e alla risposta di De Sica: “Si, ma che cosa?”, “Una cosa qualunque” era stata la risposta secca della grande attrice di teatro, dall’alto della sua esperienza, e lui spiazzato, perché conosceva solo le canzoni napoletane, rimase interdetto. Poi la Pavlova lo sollecitò di nuovo: “A scuola ci sei stato e quindi una poesia la saprai”. Subito partì con una veemente: “Cavallina, cavallina storna, che portavi colui che non ritorna…”. Tatiana Pavlova fece un cenno affermativo con la testa. L’aveva preso!

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Da Vittorio De Sica di Delia Morea, Newton Compton, Roma, 1997

28.8.10

Meglio.

Leggo su blogsicilia (http://palermo.blogsicilia.it/2010/08/estratto-di-una-finta-lotta/) la notizia della enorme quantità di improperi che stanno piovendo sulla resistenza dei precari della scuola ai loro licenziamenti. C'è chi li accusa di essere finti precari e chi di fare capricci, chi che sono piagnoni e chi coglioni (il Cavaliere in persona). E infine non può mancare chi li bolla come comunisti. E' diventato un insulto infamante.

M'è venuto in mente il compagno Torello Burgio, uno di quei socialisti che al mio paese, quando Nenni si unificò con i socialdemocratici di Saragat e si alleò con la Dc, aderirono al Psiup. Nel 66 il nuovo partito si presentò alle elezioni comunali e gli stessi comunisti tendevano a ignorarne la presenza, temendo di perdere qualche voto. Ma il gruppetto dei socialproletari faceva ugualmente la sua campagna elettorale. Facevano il porta a porta, era l'uso d'allora che qualcuno vorrebbe rinverdire. Si presentavano con un volantino e un fac-simile e cercavano di intavolare un discorso. Parlavano dell'emigrazione, dello sfruttamento dei braccianti, dello strapotere dei mafiosi, delle ruberie. Una signora una volta chiese: "Ma siete comunisti?". Torello non voleva dire un no che sarebbe stata una presa di distanze, ma non poteva dire un sì non rispondente al vero. Rispose: "Meglio!". Così dovrebbero fare i precari in lotta. Quando lor signori gridano "comunisti!", dovrebbero dire "più che comunisti, meglio che comunisti".

27.8.10

I sindaci, il razzismo, la mafia.

Tg1 delle 5.

Prima notizia. Nella scorsa notte a Roma, in un campo rom irregolare, un incendio (fortuito?) uccide un bambino. Il Tg dà la parola al sindaco: “E’ un lutto per l’intera città. Abbiamo sgomberato il campo abusivo. Le strutture del Comune sono a disposizione per assistere le persone che vivevano lì”.

Seconda notizia. Sulla spiaggia di Civitanova Marche 5 ragazzini hanno insultato e picchiato un ambulante maghrebino nell’indifferenza generale dei bagnanti e particolare dei genitori. Ha assistito alla scena una cronista dell’Ansa, che ne ha dato notizia e dice di essere rimasta “agghiacciata”. Il Tg dà la parola al sindaco: “Qui a Civitanova Marche non c’è alcun problema di razzismo. Abbiamo favorito l’integrazione di centinaia di nordafricani che lavorano al porto”.

In sintesi i Comuni (forse) assistono ed integrano gli stranieri, molti gruppi Rom vivono in postacci ove l’incidente o il blitz xenofobo sono in agguato, i fanciullini prendono a calci e coprono di sputi gli ambulanti marocchini e i sindaci dicono che di razzismo non ce n’è, né a Roma né a Civitanova. A sentire i sindaci del tempo, e anche qualche cardinale, nella Sicilia degli anni 60 non c’era la mafia.

La parola "comunista" (di Maria Attanasio)



Le tenebrose risonanze della parola comunista si confondono, nella mia infanzia tra guerra fredda e ricostruzione, alla sensazione dell’ineguagliabile calura della campagna, in cui ogni estate dei conoscenti di famiglia ci ospitavano: fara di scirocco dove d’improvviso si spegneva il sibilo dell’insetto, mentre i lavoranti stagionali continuavano a raccogliere cotone dalle basse pianticelle, o a completare, foglia dopo foglia, i lunghi filari di tabacco da appendere ai telai ed essiccare al sole; talvolta un estemporaneo gioco per me, ignara – nella circoscritta temporalità dell’infanzia in cui la conoscenza della vita coincide con l’immediata, e impotente, esperienza di essa – delle loro dure condizioni lavorative, così come nulla sapevo delle lotte contadine di quegli anni in Sicilia. Dei comunisti, invece, e della Russia seppi subito, da mio padre, grande lettore di giornali, al ritorno dall’ufficio dove ogni giorno si recava con mezzi di fortuna – un passaggio su un carretto, l’autobus e spesso a piedi – ci riferì che la Madonna piangeva a Siracusa; per colpa dei comunisti, aggiunse: terrifica parola che qualche anno dopo sentii ripetere con orrore e sgomento dalle suore dove, con grandi sacrifici alimentari di tutta la famiglia, andavo a scuola.
Accomunati per efferatezza agli antichi persecutori dei cristiani, i Comunisti divennero nella mia religiosissima infanzia i protagonisti del mio immaginario martirio: un repertorio di mentale e minuzioso orrore che, in quel tempo senza televisione e senza fumetti, trovava rigoglioso alimento nelle agiografie – ne ero avida lettrice – e nei terrifici “cunti” di spiriti, robbacore e sepolti vivi di un mondo contadino in cui anche le favole erano incubi. Di esso la mia generazione è l’ultima, tendenziosa, testimone, nostalgicamente mitizzandolo a volte, a volte come nel mio caso, in blocco rifiutandolo. Appena adolescente lo rimossi così radicalmente – insieme ai chicchi di calia colorata, alle figurette dei santini, al ristagnante odore di medicine nell’unica stanza in cui abitavamo – che non me ne ritorna mai nessun ricordo, nemmeno nei sogni; solo, a volte, un intenso e remoto fluire di sensazioni senza immagini.

Caltagirone
Postilla
E’ questo l’incipit di un libro che ritengo bellissimo, Di Concetta e le sue donne, pubblicato nella prestigiosa collana “La memoria” da Elvira Sellerio nel 1999, di una straordinaria donna del Sud, la calatina Maria Attanasio, insegnante, preside, filosofa, poetessa, scrittrice e, soprattutto, compagna. Compagna come si può essere compagni nel deserto di speranze e progetti che ci circonda. E, in più, capace di ironia e autoironia, come di rado capita a persone dotate di tanta virtù creativa. Il libro è costruito su un doppio racconto di donna. Nella “quasi introduzione” Maria, in una ventina di pagine, racconta amorevolmente la genesi del libro. Cioè, nell’ordine: il complicato rapporto con il Pci della sua Caltagirone, chiusa nello scelbismo conservatore; la conoscenza di una appassionata comunista e femminista ante litteram della generazione precedente, donna di grande vigore intellettuale e morale, oltre che politico; infine l’urgenza di comunicare una storia importante, dopo un certo numero di anni, da parte delle due donne, prima dell’una e poi dell’altra. Il corpo del volumetto è rappresentato dal racconto di Concetta, insieme forte e delicato, di lotte certo, ma anche di sentimenti: c’è dentro la Sicilia del dopoguerra, il “grande, glorioso e giusto” Pci di quegli anni tremendi, che organizzava la ribellione e il riscatto, c’è il coraggio dei braccianti e quello, di necessità raddoppiato, delle popolane comuniste, c’è la grettezza della conservazione e l’imborghesimento del Pci (chiedo scusa della parola, ma non ne trovo una migliore).Questa mia descrizione può dare l’impressione di un libro noioso, o già letto. Non è così. Ed è per questo che fermo qui la presentazione. Proporrò, nei prossimi giorni, altri brani che facciano intuire la bellezza e l’importanza del volumetto blu, in entrambe le sue parti. Vorrei poter invogliare qualcuno dei frequentatori del blog a procurarselo e a leggerselo. Saranno di certo pochi, cinque, due, uno, ma mi saranno a lungo grati del suggerimento. (S.L.L.)

Elio Lamia (di Anatole France)

L. Elio Lamia, nato in Italia da un’illustre famiglia, non aveva ancora lasciatola toga pretesta quando andò a studiare filosofia nelle scuole di Atene. Si stabilì poi a Roma conducendovi, nella sua casa dell’Esquilino, circondati da giovani depravati, vita voluttuosa. Ma accusato di intrattenere criminale relazione con Lepida, moglie di Sulpicio Quirino, personalità consolare, e riconosciuto colpevole, fu da Tiberio Cesare esiliato. Aveva allora ventiquattro anni. Nei diciotto anni che durò il suo esilio, egli viaggiò in Siria, in Palestina, in Cappadocia, in Armenia; e a lungo soggiornò in Antiochia, a Cesarea, a Gerusalemme. Quando, morto Tiberio, Caio fu acclamato imperatore, Lamia ottenne di tornare a Roma; e riuscì anche a recuperare una parte dei suoi beni. Ler sventure lo avevano reso saggio.

Evitò ogni commercio con donne di libera condizione, non brigò per avere impiego pubblico, si tenne lontano dagli onori chiudendosi nella sua casa dell’Esquilino. Scrivendo quel che aveva visto di interessante nei suoi lontani viaggi traduceva – come usava dire – le sue pene passate in divertimento delle ore presenti. E nel trascorrere di questo piacevole lavoro e nell’assidua meditazione sui libri di Epicuro, ad un certo punto si accorse, con un po’ di stupore e un qualche rimpianto che la vecchiaia incombeva. Al suo sessantaduesimo anno, tormentato da un reuma assai incomodo, andò ai bagni di Baia. Questo lido, un tempo caro agli alcioni, era allora frequentato dai romani più ricchi e avidi di piaceri. E già da una settimana Lamia viveva solo e senza amici dentro quella folla brillante, quando un giorno dopo il pranzo, si sentì disposto, fu preso dalla fantasia, di salire alle colline che, coperte di pampini come baccante, si affacciavano al mare.

Arrivato a un punto alto, sedette sul muretto di un sentiero, sotto un terebinto, lasciando che lo sguardo vagasse su quel bel paesaggio. Alla sua sinistra si dispiegavano lividi i Campi Flegrei fino alle rovine di Cuma. Alla sua destra Capo Miseno spingeva il suo acuto sperone dentro il Tirreno. Ai suoi piedi, verso occidente, la ricca Baia, seguendo la graziosa curva del lido, apriva i suoi giardini, le sue ville popolate di statue, i suoi portici, le sue terrazze di marmo: sull’orlo di un mare blu da cui affiorava il gioco dei delfini. Davanti a lui, dall’altra parte del golfo, sulla costa della Campania dorata dal sole che stava per tramontare, splendevano i templi, che facevano corona ai lauri di Posillipo, e nella profondità dell’orizzonte il Vesuvio rideva.

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Postilla

E’ l’incipit di un racconto di Anatole France (1844 – 1924), Il procuratore della Giudea, che, a quanto ne scrisse Leonardo Sciascia, “è un apologo – e un’apologia – dello scetticismo più assoluto (e quindi anche della tolleranza che ne è figlia)”. Fu uno dei primi volumetti, il quarto precisione, della collana più importante di Elvira Sellerio, “La memoria”, quella degli eleganti volumetti blu, a quel tempo stampati dalla Luxograph, la più rinomata ed elegante tipografia palermitana. Era il 1980 ed il racconto dello scrittore francese risaliva al 1902. Lo aveva scelto e tradotto proprio Leonardo Sciascia che della signora Elvira era il consigliere più ascoltato e che aveva inaugurato la collana con il libro su monsignor Ficarra (Dalle parti degli infedeli); e la sua postfazione resta un piccolo capolavoro del genere. Consiglio pertanto a tutti la lettura del libricino. L’incipit mi pare peraltro per il suo nitore stilistico, classico, per la suggestione che comunica il paesaggio che lo conclude, un vero pezzo di bravura. Di Anatole France certamente, ma non dubito che abbia efficacemente cooperato la mano del traduttore. (S.L.L.)

26.8.10

Rivoluzione, che gusto. Taverne, vino e cibo nella cultura anarchica e socialista (di Sara Menafra)

Luigi Veronelli
L'articolo di Sara Menafra è una corrispondenza da Messenzatico in provincia di Reggio Emilia e risale al 13 giugno 2006. Racconta motivazioni, precedenti e svolgimento di un iteressante convegno anarchico su "Le cucine del popolo", dedicato in quell'anno al nesso tra tavola, cultura, anarchia e socialismo. E' pieno di curiosità e suggestioni.
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La rivoluzione mangia
Ospiti dell'osteria «Le tre zucchette», i membri della Federazione internazionale italiana riuniti a Bologna nel 1872 mangiarono pasta all'uovo. Chi pensa che il dettaglio sia tutt'altro che secondario è il benvenuto al convegno Cucine del popolo, dove un gruppetto di anarchici reggiani, con il pallino dei legami tra cucina e rivoluzione, spiega che il nesso tra pancia e politica è antico. E che la rivolta non solo è spesso per il pane, ma frequentemente si pianifica a tavola.
L'ultima puntata dell'iniziativa, dedicata in particolare a quel che mangiavano i poeti della rivolta, si è chiusa domenica scorsa a Massenzatico, frazione alle porte di Reggio Emilia, luogo natale di
Camillo Prampolini e sede della più antica casa del popolo d'Italia, fondata nel 1893 un anno dopo la creazione del partito socialista a Genova.
Basta arrivarci, sedersi in un bar sul limitare emiliano della pianura padana, farsi raccontare che da queste parti la prima rivolta rivoluzionaria data 1796 per cominciare a capire come mai i militanti
della Federazione anarchica italiana di Reggio Emilia considerino normale sistemare mezzo convegno in un circolo Arci zeppo di diessini e piazzare tra i banchetti di degustazione che circondano la sala del dibattito pure il gruppo di poeti che si finanzia producendo i vini «Rosso Stalin» e «Rossissimo Lenin».
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Un vinaccio pari alla gazzosa.
L'interrogativo su cosa mangiassero i rivoluzionari è nato tre anni fa, quando a una riunione su tutt'altri temi il gastronomo anarchico Luigi Veronelli si azzardò a dire a Gianandrea Ferrari che il lambrusco è un vinaccio, pari alla gassosa. «Gli ho ricordato che dalle nostre parti i bambini venivano battezzati col lambrusco, il vino dei braccianti rivoluzionari», ricorda ridendo il libraio antiquario che quando parla di Veronelli si emoziona sempre un po'. La discussione era gravida di
conseguenze perché in fondo, convennero i due, dei ribelli, specie italiani, si sa poco di quel che dicevano o scrivevano e ancor meno di cosa mettessero in tavola per corroborare le discussioni sui massimi sistemi. In poco tempo, alla fine del 2004, è nato il primo convegno dal titolo Le Cucine del popolo. L'approccio era generale, si parlava delle ricette proletarie più diffuse e delle grandi tavolate attorno a cui nacquero le prime idee socialiste e Veronelli per l'occasione pronunciò persino un brindisi dedicato al lambrusco: «Ciascuno di noi sa che nei momenti di lotta si alzava il bicchiere carico di lambrusco, il più nero possibile forse segno di rigore, risolutezza e condivisione del destino. Volevano, così come noi oggi vogliamo, l'anarchia».
Un anno e mezzo di ricerche dopo, i dettagli sono aumentati. La maestra non ce l'ha mai confessato, eppure Carducci, Pascoli e De Amicis, per dire solo dei più noti, non solo simpatizzavano per gli ideali di riscatto sociale, ma non disdegnavano la buona tavola. Soprattutto le corrispondenze personali di Carducci, repubblicano convinto, erano ricche di dettagli gastronomici. Della Toscana ricordava prima di tutto il «panin gravido» e di Follonica il «fiaschetto di aleatico che vuotai ben presto». Da Lenindara, già cinquantenne, scriveva alla moglie: «Sto bene e mangio troppo. Dimani mangerò dei pavoni. Tu hai mai mangiato pavoni? Io no. Dicono che son buoni. Sentirò». E quando, ormai anziano, doveva limitare la gola, dalle vacanze scriveva a un amico: «Non manchi che tu a fare sciarade e dire freddure e cucinare camoscio e bevere tant'...acqua».
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Manicaretti pascoliani
Pure Giovanni Pascoli, socialista ed amico personale di Andrea Costa, almeno da giovane non disdegnava qualche buon manicaretto specie se preparato dalla sorella Mariù, abile cuoca. Giovanni Biancardi, bibliofilo, docente all'Università di Reggio e professore d'italiano che ha scartabellato lettere e appunti privati fino a scoprire tanti dettagli, scrolla la testa contrariato: «Nella maturità poetica, come altri dell'epoca, decise che per stare davvero dalla parte del popolo bisognava essere pauperisti e non azzardare discorsi sul cibo. Al massimo si poteva parlare di pane, ma nulla più». Un poemetto giovanile che ci racconti della passione profana del poeta però c'è ed è una gara sui risotti, in punta di rima l'amico Augusto Guido Bianchi parlava a Pascoli di risotto alla milanese e lui rispondeva con un'ode al risotto romagnolo: «Soltanto allora ella v'ha dentro cotto/ il riso crudo, come dici tu./ Già suona mezzogiorno... Ecco il risotto/ romagnolesco, che mi fa Mariù».
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I primi ricettari futuristi
A discutere dei legami tra letteratura, cucina e ribellione, gli anarchici reggiani hanno chiamato pure scrittori in carne ed ossa, come Carlo Lucarelli che ipnotizza la platea esattamente come fa quand'è dall'altra parte dello schermo, ed Edoardo Sanguineti, poeta e anarchico che si mimetizza nelle tavolate reggiane come se non avesse frequentato altro posto in vita sua e quando prende la parola salva solo i primi ricettari futuristi, i cui autori erano inizialmente legati al socialismo ma poi quasi tutti si buttarono senza remore appresso al fascismo. Solo a quel punto scriveranno il Manifesto della cucina futurista e la conseguente invettiva contro la pastasciutta definita «assurda religione gastronomica» che sviluppa lo «scetticismo ironico e sentimentale» producendo «fiacchezza, inattività nostalgica e neutralismo». «L'abolizione della pastasciutta - era l'auspicio - libererà l'Italia dal costoso grano straniero e favorirà l'industria italiana del riso». Pure Mussolini ci mise del suo, nota lo storico Alberto Ciampi, esperto del tema, e nella foga autarchica non dimenticò di coniare molti nomi attinenti al culinario. Polibibita, quisibeve, traidue, peralzarsi, pranzoalsole, altro non sono che cocktail, bar, sandwich, dessert, picnic.
Attorno al dibattito, in attesa degli spuntini, racconti e ricerche si incrociano veloci. Arturo Bertoldi ha scovato un libello di Edmondo De Amicis, che pur giunto in vita oltre la centesima edizione del libro Cuore, si vide praticamente censurare l'operetta Il vino nata da una conferenza sugli effetti psicologici della bevanda. Dentro, racconta Bertoldi, c'era l'introduzione perfetta ad una ideale carta dei vini: «Tutto è mutato dentro e intorno a noi, ci vediamo di fronte a un avvenire sconfinato, ci sentiamo ancora giovani per l'amore, per la gloria e per la ricchezza, e quando s'urtano tutti i bicchieri, in quell'incrociamenti di evviva e di saluti, par che cominci un'epoca nuova per il genere umano».
Spulciando spulciando, gli anarchici reggiani hanno trovato pure i consigli di Luigi Molinari, l'autore dell'Inno della rivolta, canzone anarchica piuttosto famosa sulla cui falsa riga è stato scritto pure I comunisti della capitale, il quale oltre a fare l'avvocato, ad essersi fatto arrestare nel 1894 come istigatore dei moti della Lunigiana, era pure un discreto cuoco e consigliava ad amici e compagni un ottimo «Riso proletario alle erbe». Oppure la ricetta delle «Alici alla Svizzera» (seconda patria degli esuli anarchici) di Giovanna Caleffi, moglie di Camillo Berneri, ma ella stessa leader del movimento anarchico. O, ancora, i consigli dei rivoluzionari esuli come Mario Mariani, autore di romanzi parecchio popolari sul finire del diciannovesimo secolo, che scrisse ai compagni un «Menù dell'esilio», in cui spiegava per filo e per segno come aggiustare una minestra troppo salata - «Aggiungete qualche patata cruda e fate bollire ancora un po'» - o evitare che l'olio si inacidisca - «Metteteci un po' di sale grosso». Insomma - sorridono gli studiosi di cucina e rivoluzione - il rapporto tra i due argomenti esiste almeno da quando i socialisti scelsero di chiamarsi tra loro compagni: «Compagno - detta alla sala attenta, il giornalista Luigi Bolognini - è un termine medioevale e viene da cum panem, ovvero commensale».
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Chissà cosa mangiava Marx
La curiosità sfrigola come lo gnocco fritto, ma per sapere quel che mangiavano Marx e i primi internazionalisti bisognerà aspettare almeno fino all'anno prossimo. «Bisogna fare ricerche accurate, avere le prove di tutto, sennò che senso ha? - dice Gianandrea -. Intanto però posso dirti che abbiamo scoperto che con lo scarso successo di Bakunin in Italia c'entra anche il cibo: quando videro arrivare questo pancione che mangiava e beveva, proletari e intellettuali, un po' poveri e un po' pauperisti, cominciarono a dubitare pure di quel che diceva».
Aspettare le ricerche dunque. E sperare che il dettaglio sia preciso come quelli su cui si è basato il menù del Veglionissimo di domenica, lo stesso realizzato nel 1906 durante una festa socialista per sostenere il settimanale “La Giustizia”: tortelloni, arrosti, salse di campagna e lambrusco «a sfare», riproposto, si legge nel volantino, «con la variante dei tortelloni multicolori, per evidenziare i vari colori del socialismo che posson unirsi nelle rispettive e rispettose differenze, nella solidarietà e della giustizia sociale». La rivoluzione non russa, scrivevamo una volta. Ma di certo mangia.

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