13.7.10

Una rivoluzione senza rivoluzione e con poca uguaglianza. Il lessico della politica in Italia nel triennio delle repubbliche giacobine (1796-1799).


Le rivoluzioni, a prescindere dai loro esiti, posseggono quasi sempre una grande innovazione e produttività linguistica. Esse non si limitano cioè ad accogliere il lessico politico tradizionale, ma ne risemantizzano i termini, danno ad essi nuove sfumature di significato, e, nello stesso tempo, affermano parole nuove, spesso cariche non solo di valenze descrittive e concettuali, ma anche affettive.
Di questo fatto apparivano consapevoli alcuni dei protagonisti del giacobinismo italiano nel triennio rivoluzionario. Per esempio, quando nell’agosto del 1798 a Giuseppe Compagnoni fu affidata la direzione del “Monitore Cisalpino”, il più importante dei giornali milanesi repubblicani, egli constatò che la lingua italiana si era arricchita di recente di nuovi termini o nuovamente arrivati in Italia, o di nuova significazione, o d’un’antica, ma cambiata e travisata. La tendenza a utilizzare le pagine dei giornali per chiarire il corretto significato delle nuove parole della rivoluzione era già stata una scelta dei compilatori del “Monitore di Roma” (peculiarmente di Vincenzio Russo), che insieme ad articoli di cronaca sugli eventi costituzionali, politici, amministrativi e bellici pubblicavano pezzi dal titolo Democrazia, Libertà e simili, formalmente tesi a chiarire il nuovo ed autentico significato di queste parole. Analoghe rubriche apparvero su molte altre gazzette locali dei repubblicani. 
Spesso gli articoli sul lessico rivoluzionario sono pretesto per polemiche contro avversari, esterni o interni al campo repubblicano. Ma Compagnoni va oltre: c’è in lui una necessità, didattica, di chiarire fino in fondo i significati affinché la comunicazione politica non sia soggetta ad ambiguità e travisamenti. Egli preannuncia perciò la pubblicazione, a puntate, di un Vocabolario democratico, enumerando i termini che si propone di trattare e che vale qui la pena di ricordare: aggiornare, allarmista, appoggiare, aristocrazia, attivare, avvocazione, cittadino, civismo, corporazione, correzionale, correzione, costituente, costituito, democrazia, eguaglianza, emigrato, emigrazione, federalismo, federalista, federativo, federazione, filantropia, libertà, liberticida, massa, menzione, onorevole, moderantista, monarchia, mozione, nazione, oligarchia, popolo, provvisorio, rapportare, risolvere, rivoluzionare, rivoluzionario, sanculotto, teocrazia, teofilantropia, tirannia, vendeista.
Tra tanti vocaboli sorprende la presenza di sanculotti e vendeisti (oggi si direbbe vandeisti o vandeani) che al tempo, almeno nella Francia da cui provenivano, potevano dirsi termini obsoleti e sorprende ancor più l’assenza di giacobino, termine che invece la reazione continuava ad usare ampiamente in ogni angolo d’Europa. In questo caso si tratta probabilmente di una sorta di autocensura. Comunque, per la cessazione delle pubblicazioni del “Monitore Cisalpino”, la concreta trattazione dei vocaboli si interruppe alle voci federalismo e federazione.
Nella ventina di definizioni pubblicate da Compagnoni non mancano divagazioni storiche e spunti di attualità, ma l’esigenza prevalente, cioè quella di un chiarimento linguistico e concettuale, viene generalmente rispettata. Non altrettanto rigorose si rivelano alcune consimili iniziative. A Roma, nei primi mesi della repubblica, viene pubblicata una Grammatica repubblicana, il cui autore si firma con lo pseudonimo di Nicio Eritreo. La vera identità è ignota, anche se gli storici ipotizzano, da alcuni passaggi del testo, un passato di ecclesiastico. Anche lui aspira a mettere in ordine e a definire le parole e i concetti dell’epoca nuova, ma la sua capacità di chiarimento è inficiata dall’eclettismo teorico-politico e dai difetti di specifica competenza linguistica.
Un obiettivo analogo si propone, con maggiore coerenza, Vincenzio Russo, che, nella stessa città di Roma, scrive e pubblica i suoi Pensieri politici. Essi sono organizzati come voci di dizionario, seppure non disposti in ordine alfabetico. Alcuni dei testi (particolarmente significativo quello dedicato alla proprietà) si aprono con la definizione tecnico-linguistica del termine e solo dopo vengono aggiunte a corredo considerazioni storiche e teoriche e proposte politiche. In questi casi l’intento di una chiarificazione semantica e concettuale viene sicuramente rispettata. Tuttavia altre voci, più numerose, hanno la struttura meno organica di un saggio alla Montaigne, in cui l’autore sembra seguire il corso dei ragionamenti, o presentano una struttura oratoria (più “asiana” che “attica”), sottolineata dalla sentenziosità. Può esserne esempio l’incipit dell’articolo Rivoluzione: “Tradisce la rivoluzione chiunque non l’incalza con rapidità”.
Altri repertori di termini, grammatiche o sommari vennero pubblicati nel triennio repubblicano, ma tutti documentano che i tentativi di costruire un comune vocabolario della democrazia repubblicana, per quanto numerosi e generosi, non sortiscono gli effetti desiderati. Il linguaggio dei giacobini conserva ampi margini di incertezza.
Non per questo esso risulta meno significativo. Lo studio del linguaggio politico e delle sue modificazioni si è rivelato negli ultimi decenni del Novecento una chiave metodologica efficace per la comprensione e l’interpretazione del giacobinismo italiano e delle sue dinamiche interne. Materiale privilegiato delle nuove ricerche sono state, insieme ad altri testi pubblici o privati dei patrioti italiani, le dissertazioni presentate al celebre concorso indetto a Milano dall’Amministrazione della Lombardia sul futuro politico dell’Italia, la cui importanza documentaria, nella storia del pensiero politico, va dunque al di là delle stesse proposte costituzionali.
Lo studio di queste dissertazioni ha condotto ad alcune ipotesi interpretative. Due coppie di termini, “democrazia-repubblica” e “rivoluzione-rigenerazione”, sono state considerate centrali nel lessico dei giacobini italiani e, inoltre, l’esame statistico delle tendenze prevalenti ha evidenziato un significato molto rinnovato del termine libertà e della stessa nozione di politica. Il lemma politica, con il connesso aggettivo politico, è stato studiato in relazione a tutti quelli che più frequentemente vi si accompagnano (pubblico, comune, cittadino, istituzioni, legislazione). La sorpresa (relativa) è che quasi mai il termine è accostato alla più radicale e scandalosa parola d’ordine della Rivoluzione Francese, e cioè eguaglianza o uguaglianza. E’ evidente che il peso delle idee del Buonarroti nel contesto politico italiano, nonostante la sua attività cospirativa, fosse, almeno nell’autunno del 1796, assai limitato. Del resto egli stesso, partecipe entusiasta della cosiddetta Congiura degli Uguali o di Gracco Babeuf, su cui avrebbe più tardi scritto un saggio rievocativo pieno di simpatia, a giudicare dai pochi documenti noti, sembrava uniformarsi, già negli anni novanta del Settecento, ai criteri di estrema riservatezza, se non di segretezza, sugli obiettivi ultimi del processo rivoluzionario, che poi avrebbero ispirato la sua attività cospirativa nel tempo della Restaurazione. Gli obiettivi finali del processo rivoluzionario, egualitari non solo sotto il profilo politico, ma perfino sotto aspetti di carattere economico e sociale, sono taciuti o rivelati a pochissimi. Il proselitismo si sviluppa su basi ideologicamente e linguisticamente prudenti, il radicalismo riguarda piuttosto la necessità e l’urgenza dell’azione. Pertanto il termine che sussume l’unico egualitarismo possibile, nel contesto specifico del triennio, è quello di cittadino e l’uguaglianza ritenuta possibile ed auspicabile non è quella politica e meno che mai quella economica o sociale, ma soltanto quella civile o civica.
Guardando al lessico politico-istituzionale, più in generale la sua divulgazione e volgarizzazione, si possono constatare alcuni scambi con i linguaggi delle scienze, delle tecniche, delle lettere e delle arti. Una nuova connotazione, tutta politica, assumono per esempio alcuni termini caratteristici del linguaggio etico-psicologico, prima fra tutte la parola virtù, tanto cara a Robespierre, ed un linguaggio letterario di tipo classicistico si avverte qua e là nella denominazione delle nuove istituzioni, soprattutto parlamentari ed amministrative.
In un contesto provinciale, come quello di Perugia e del Dipartimento del Trasimeno, i documenti disponibili (atti e bandi delle pubbliche amministrazioni, opuscoli propagandistici, epistolari pubblici e privati, discorsi stampati) esprimono quasi sempre, senza particolare originalità, le tendenze di questa varia letteratura, ma fanno emergere alcune peculiarità. La prima e più evidente riguarda il termine nazione, che qui quasi mai si accompagna all'aggettivo "italiana", ma quasi esclusivamente a "perugina" o, più raramente, "romana". La seconda riguarda il ritegno quasi generale nell’uso del temine rivoluzione. Non usa mai questa parola, almeno in testi stampati ed in occasioni pubbliche, Annibale Mariotti ed anche altri protagonisti della stagione repubblicana, fondatamente considerati di orientamenti più radicali, la adoperano assai parcamente. 
Eccezionalmente, in una allocuzione pronunciata a Perugia davanti a un Altare della Patria fabbricato per l'occasione, il 4 febbraio del 1799, anniversario della caduta del potere pontificio, parla di “inaudita rivoluzione politica e religiosa” Angelo Bossi, allora Segretario Generale del Dipartimento del Trasimeno. Egli si riferisce al mutamento di regime politico verificatosi a Perugia e a Roma. Il termine rivoluzione non designa qui un moto insurrezionale violento e travolgente, quanto la caduta sostanzialmente incruenta di quella che chiama “schiatta vile degli oligarchi” e di quella dei “propagandisti della superstizione”. Egli evidentemente si riferisce al ruolo dominante che nello Stato Pontificio avevano il clero e l’aristocrazia civile. Il discorso del Bossi è pieno di riferimenti all’antichità classica, peraltro non sempre puntuali. Chiede tra l’altro al popolo perugino di rinnovare la virtù di Socrate.
Il suo bersaglio polemico è "l’assurdo sistema del Federalismo che divide i Popoli e distrugge il contratto sociale". E’ interessante notare come il termine "federalismo" assuma qui un valore esplicitamente negativo ed è teso a bollare l’indipendentismo o il radicale autonomismo che si evidenziava qua e là nei territori della Repubblica Romana. Una connotazione sostanzialmente positiva, seppure in maniera problematica, era stata invece attribuita al federalismo nel "Vocabolario democratico" del Compagnoni, il quale nel trattare il vocabolo federazione aveva dato corpo ai suoi sentimenti unitari ricordando la festa della Federazione dei popoli lombardi del 1797, augurandosi una festa della Federazione italica come una tappa decisiva in direzione della completa unificazione dei territori e dei popoli d’Italia. L’orizzonte del Bossi è di certo assai più ristretto e le sue speranze assai più limitate. Egli si accontenta di confondere la Libertà perugina con la Libertà di Roma. Nel testo è presente, del resto, una breve rievocazione storica, in cui il Genio della Libertà Perugina è rivendicato come protettore anche contro le pretese oppressive di Roma, sia ai tempi dell’antico impero, sia in quelli, ben più vivi nella memoria, del potere pontificio e curiale.
Resta forse da chiedersi quale sia la ragione storica del successo del termine virtù, in luogo di sinonimi come potrebbero essere onestà, integrità e simili. La chiave è forse da ritrovare in alcune pagine dello Spirito delle leggi di Montesquieu, in cui il capostipite dell'Illuninismo francese individua e descrive le forme di governo. Le tre fondamentali sono per lui dispotismo, monarchia e repubblica ed esse si distinguono non soltanto per le strutture in cui si organizzano, ma più ancora per i principi che le informano e le sorreggono. In questa luce monarchia e dispotismo per quanto entrambe basate sul governo di una sola persona sono assai dissimili. Il governo monarchico si basa su leggi fissate e stabilite ed il suo principio informatore è l’onore; mentre il governo dispotico è del tutto arbitrario ed il principio su cui si regge è la paura che il potere incute nei sudditi.
Il principio del governo repubblicano è per Montesquieu la virtù, cioè la capacità di sottostare alle leggi da noi stessi emanate, sì da essere responsabili delle nostre proprie azioni. Nella democrazia questa capacità deve essere posseduta da tutto il popolo, nell’aristocrazia dev’essere posseduta soprattutto dai nobili. Questa identificazione virtù-repubblica piacque ai costituenti che sui testi di Montesquieu si erano spesso formati. La componente del giacobinismo radicale, che pure guardava con maggiore simpatia a Rousseau, la ribadì e la rafforzò, perché il termine virtù, nel suo originario significato latino comprendeva anche una sfumatura di forza, di coraggio, di valore militare, di entusiasmo, e perciò ben si prestava ad indicare l’insieme delle doti del rivoluzionario repubblicano.
Il temine "rivoluzione" non risulta pregnante neppure nei testi del Tornera, un ex monaco radicale che orientava l’azione di propaganda del circolo costituzionale perugino. Egli cercava un fondamento religioso, addirittura evangelico, della democrazia repubblicana e sosteneva che “Il cattolicesimo è sempre stato l’amico della democrazia e la più alta dichiarazione dei diritti dell’uomo l’ha data Gesù Cristo nel vangelo, annunciando che gli uomini sono fratelli, figli dello stesso padre e che hanno un solo padrone, che è in Cielo”. Sono termini, temi ed argomentazioni, che con ben altro vigore, si avvertono nei discorsi romani di Enrico Michele L’Aurora, che sul cristianesimo fonda una sua polemica contro l’aristocrazia nel 1797, sostenendo che nella sua origine l’ambizione di dominare condusse l’uomo a mille iniquità e permise a “un picciol numero di individui” di dominare una nazione intera. Come L’Aurora anche Tornera sembra aspirare ad un mutamento in profondità dei modi d’essere e di pensare degli individui sociali e spiega perchè al termine rivoluzione anteponga nettamente quello di rigenerazione, collegato a tutta una serie di termini del come rinascita o ripristino, allusivi ad una condizione originaria di libertà e di uguaglianza successivamente perduta.
Nella "rigenerazione" proposta dagli esponenti del giacobinismo perugino e romano non è difficile riconoscere l’ambiguità del progetto rivoluzionario. Esso, infatti, si presenta da una parte come rottura e distruzione, come tentativo di fare tabula rasa del passato, con le sue oppressioni e superstizioni, per dare avvio ad una società umana e politica completamente nuova. Dall’altra esso cerca nel passato una qualche epoca, un qualche tempo, un qualche luogo da erigere a mito, per dare forza al progetto e garantirne l’effettiva praticabilità. Questa irrisolta doppiezza continuerà a caratterizzare nel tempo i movimenti rivoluzionari. A questo proposito le elaborazioni politiche dei repubblicani permettono di tracciare, all’interno del giacobinismo tardo-settecentesco, una tendenziale distinzione. La componente più razionalistica, ma anche generalmente più moderata, del repubblicanesimo utilizza molto spesso come mito paradigmatico alcune esperienze statuali determinate, la polis greca, soprattutto ateniese, talora anche spartana o l’antica repubblica romana. La componente cattolico-roussoviana chiama invece più spesso in proprio soccorso un non meglio precisato stato di natura, collocato all’origine della storia umana. (S.L.L.)
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Nota. Il testo è nato sul finire degli anni Novanta, a corredo di una lettura scolastica di testi perugini del tempo della giacobina Repubblica Romana (1798-99).

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