11.7.10

Sergio Garavini (da "micropolis" settembre 2001).

Il 7 settembre del 2001, a 73 anni, moriva Sergio Garavini. Questo articolo comparso su "micropolis" nello stesso mese voleva essere più di un "coccodrillo", ma il tentativo di cogliere i nodi essenziali di una militanza etica e politica che sentivo (e continuo a sentire) come esemplare. Oggi, nei giorni di Pomigliano d'Arco, riproporre quella lezione mi sembra particolarmente utile.

Per Sergio Garavini un rito funerario di città, senza cortei ed accompagnamenti, sobrio, schivo, serio e insieme appassionato com'era lui.
Nella mattinata di lunedì 10 la camera ardente nella sede della Cgil nazionale registra tante visite e tante firme: i gruppi dirigenti della sinistra politica e sindacale, i compagni a lui più vicini, dagli anni della Fiat e della Fiom a quelli della prima Rifondazione, ma anche militanti di base, operaie ed operai, intellettuali, giornalisti, semplici cittadini.
Nel primo pomeriggio, nello spiazzo davanti all'edificio, alcune centinaia di persone ascoltano le commemorazioni (non rituali) di Sabbattini e di Epifani e partecipano al commosso e commovente intervento del figlio, prima della partenza del furgone nero, tra lacrime, pugni chiusi, applausi, qualche saluto affettuoso. Alcune presenze ci rammentano la massima di La Rochefoucauld secondo la quale "l'ipocrisia è l'omaggio che il vizio rende alla virtù". E' di sicuro una nostra cattiveria: il dolore di taluni personaggi è probabilmente sincero, opportunamente congiunto a un qualche pentimento per le carognate staliniste di un passato non tanto remoto; ma la faccia compunta di certi pinguini senza colbacco ci procura ugualmente rabbia.

Un dibattito a Perugia
Noi di “micropolis” e di Segno critico conserviamo traccia dell'amicizia con Sergio Garavini non solo nella nostra memoria, ma anche nelle locandine che tappezzano le pareti della nostra sede. La sua generosità si esprimeva anche nella disponibilità ad aderire alle nostre iniziative di dibattito, nel portarvi un contributo di intelligenza, di rigore e di passione.
L'ultima volta che venne a Perugia fu il 9 dicembre dell'anno scorso, già provato dalla malattia, armato del pessimismo della ragione, ma anche da una forte tensione morale e politica. Le elezioni si approssimavano e lo stato dei rapporti a sinistra era gelido, tale da rendere certa la vittoria elettorale della destra, che era già molto probabile, per i tanti errori accumulati nel tempo. Ds e Rifondazione non si parlavano. Veltroni e D'Alema erano occupati nella loro resa dei conti, Bertinotti preferiva incontrarsi con Rutelli. In molti circolava l'illusione che, non si sa su quali basi, alla fine un inciucio tecnico per le elezioni si sarebbe trovato. Per Garavini (come pure per noi) era un errore di manico: senza un qualche accordo, anche minimo, sui programmi, sulle prospettive, ogni ipotesi di desistenza era, oltre che inutile, impossibile. Di politica bisognava ragionare e cioè di economie, di classi sociali, di riforme, non già di scorpori o di collegi: un dialogo serrato, chiaro, perfino polemico, era assolutamente urgente e necessario, anche al di là della scadenza elettorale e del suo risultato, pena il futuro stesso della sinistra.
Questa esigenza Sergio tentava di affermare in tutte le sedi, le associazioni della sinistra critica, quella che lui stesso aveva fondato e quella presieduta da Tortorella, “il manifesto”, altre riviste di sinistra. Ne aveva scritto, da ultimo, su “Aprile”, lanciando un allarme ed una proposta.
Noi che, nel nostro piccolo, lavoravamo per obiettivi analoghi, lo avevamo invitato a guidare un dibattito che avevamo promosso, con esponenti delle sinistre dei DS, di Rifondazione Comunista e dei Comunisti Italiani, sul tema dell'unità possibile. Fu per gran parte un dialogo tra sordi. Quel che di Garavini sorprendeva, in quella occasione, non era solo la lucidità, il mettere i piedi nel piatto, in fondo per lui abituali, quanto l'attenzione a qualunque spiraglio potesse aprirsi nelle corazze che gli interlocutori indossavano.
Avrebbe dovuto e voluto essere con noi anche il 22 maggio, a dibattere del dopo elezioni. Glielo impedì il progredire della malattia.


Gli anni duri alla Fiat
La vicenda politica di Garavini, sia pure con molte reticenze, è stata riferita dai coccodrilli dei giornali. Ma vale la pena di ricordarne qui alcuni passaggi, alcuni tratti caratterizzanti. Diciassettenne partecipa alla Resistenza torinese nel 1944, nei gruppi studenteschi. Dopo la Liberazione, mentre frequenta Ingegneria, si iscrive al partito socialista, allora Psiup, da cui esce nel 1948, dopo uno scontro con Pertini, per aderire al Pci. Nel 1951, già ingegnere, compie una scelta politica che è anche scelta di vita: comincia a lavorare alla Camera del Lavoro, per la Fiom, il più antico e glorioso sindacato italiano di categoria, che aveva nella Fiat il suo punto di forza. In lui, fin da allora, il progetto politico di trasformazione sociale, il progetto comunista non ha alcun valore ed alcuna possibilità, se non si esprime al livello fondamentale dello scontro di classe, il rapporto capitale-lavoro nella moderna fabbrica capitalista, se non si esprime nella partecipazione e nella democrazia operaia. Ed è a questa battaglia, a questo livello, che egli intende dare il suo contributo non solo politico, ma anche tecnico. E' nota la sua privata progettazione di un'utilitaria che, assai prima del lancio della Seicento o della Cinquecento, avrebbe nei suoi disegni dovuto costituire il nuovo indirizzo produttivo dell'azienda torinese per soddisfare i bisogni del vasto mondo operaio e popolare.
E' nella lotta dura della Fiat che Garavini si forgia nei primi anni cinquanta, in quelli che in un libro di rievocazione e riflessione politica, scritto in collaborazione con Emilio Pugno, chiamerà Gli anni duri alla Fiat. Nel 1953 infatti parte il feroce attacco di Valletta alla Fiom, con l'erogazione del primo importante premio antisciopero, con il sostegno alla Fim-Cisl ed alla Uilm-Uil, con l'emarginazione nei reparti confino o il licenziamento dei lavoratori più impegnati e combattivi, con l'utilizzazione di gruppi di provocatori e di mazzieri, come quelli del gruppo "Pace e libertà".
Il processo si compie con la sconfitta, pesantissima, nell'elezione della Commissione Interna, della lista Fiom, che dal 1954 al 1955 passa dal 63 per cento al 36. Una sconfitta gravissima, favorita anche dalla relativa sottovalutazione della lotta in fabbrica da parte del suo stesso partito, che sembrava voler resistere all'offensiva della Dc e della destra confindustriale su un terreno prevalentemente propagandistico ed elettorale. Garavini nei suoi interventi politici insiste invece su un impegno più diretto delle forze di sinistra, del Pci e del Psi, per la democrazia in fabbrica.
E' su questo terreno che matura il suo dissenso sull'invasione sovietica dell'Ungheria: non è per un principio di democrazia astratto che egli nega la solidarietà all'Armata Rossa, ma perché un socialismo senza e contro gli operai non gli pare socialismo. Non cede su queste posizioni, neanche quando Di Vittorio, dopo un primo dissenso, si adegua alle dure scelte di Togliatti; ma non segue i tanti, soprattutto intellettuali, che lasciano il partito e spesso anche la militanza politica. Rimane nel Pci, nella Cgil e nella Fiom, a combattere la sua battaglia di principio.
Il problema del sindacato, dopo la sconfitta, era quello di come organizzare una controffensiva, quando non esisteva più l'organizzazione in fabbrica. Fu un lavoro condotto in gran parte dall'esterno con pazienza e tenacia, da dirigenti come Garavini, nella direzione degli operai rimasti legati alla Camera del Lavoro e nell'elaborazione di temi e di rivendicazioni su salari, cottimi, orari, premi, intorno ai quali costruire una nuova lotta ed una nuova egemonia fino alla ripresa della Cgil e del movimento, agli inizi degli anni sessanta ed, in particolare, nelle lotte contrattuali del 1962.

I rapporto con i Quaderni Rossi
Nei primissimi anni sessanta, mentre organizza in Fiat il nuovo ciclo di lotte, Sergio Garavini entra in contatto con il gruppo di intellettuali, operai e militanti della sinistra, che, guidato da Raniero Panzieri, aveva dato vita alla prima rivista storica dell'operaismo: i “Quaderni Rossi”. A quel tempo, Panzieri, per il suo dissenso dalle prospettive nenniane di unificazione socialdemocratica e di centrosinistra, ma anche dalla minoranza di sinistra, i cosiddetti "carristi", era già fuori dal Psi, in cui aveva ricoperto importanti ruoli dirigenti, in dissenso con tutta la sinistra ufficiale. Respingeva infatti le ipotesi di “programmazione democratica”, su cui si orientava anche il Pci e gran parte del movimento sindacale, sulla linea del controllo operaio, ritenendo che le mediazioni politico-parlamentari dovessero semmai intervenire a ratificare rapporti di forza già definiti nel conflitto di fabbrica. Tutto ciò sulla base di una particolare lettura di Marx che postulava una sorta d’identità tra forze produttive e rapporti di produzione.
Garavini riteneva che questo paradosso intellettualistico, da cui pure dissentiva, cogliesse tuttavia il dato reale della subordinazione alle macchine del lavoro vivo. Collaborò pertanto alla rivista, sulla quale scrisse tra l'altro un saggio su Salario e rivendicazioni di potere (settembre 1961). In dissenso con Vittorio Foa, un altro sindacalista torinese in rapporto con Panzieri, riteneva che non fosse la quantità di salario a definire di per sé i rapporti di forza, ma le modalità della sua erogazione. Agli aumenti salariali periodicamente concessi, anche quando non si trattasse di "premi di collaborazione", egli contrapponeva un'azione sindacale ed una dinamica salariale che fosse in stretto rapporto con le condizioni di lavoro e che dunque esprimesse in qualche modo un controllo degli operai sulla propria forza lavoro. Non pensava peraltro che ciò esaurisse i compiti della lotta di classe, ma riteneva piuttosto che solo partendo dalla fabbrica si potessero sviluppare in tutta la società rapporti democratici.

Dall'autunno caldo alla sconfitta operaia
L'apertura al dissenso, il tratto libertario di Garavini lo condusse ad assumere, tra pochissimi nel Comitato Centrale del Pci, una posizione contraria alla radiazione del gruppo de “il manifesto” e, successivamente, ad assumere un ruolo di primo piano nell'apertura dell'organizzazione sindacale ai Consigli di fabbrica nel corso dell'autunno caldo.
Ne scriveva anche sulle riviste della sinistra radicale, come “Giovane critica”, di cui fu assiduo collaboratore e su cui propose nell'estate del 1971 una lettura non burocratica del processo di unità sindacale, fondandola sui delegati, sulle assemblee e sui Consigli, come espressione di un'unità che facesse avanzare la lotta politica, su una vasta scala di massa, anche fuori delle fabbriche e dei luoghi di lavoro. Libertaria è anche la posizione in merito alla questione, allora assai importante, dell'incompatibilità: al giusto principio della separazione delle attività operative del Sindacato da quelle dei Partiti doveva – secondo lui – corrispondere un "riconoscimento effettivo del diritto di milizia politica nelle forze politiche del militante sindacale".
Garavini è ancora in prima fila negli anni del riflusso e della sconfitta operaia, che seguono il periodo dell'unità nazionale. Dissente da Lama e da Trentin ed è il dirigente più vicino a Berlinguer, quello che lo spinge a dichiarare un sostegno esplicito del Pci all'eventuale occupazione della Fiat di fronte alla minaccia di 20.000 licenziamenti. Quella lotta si concluderà con il corteo dei tecnici e dei capi e la sconfitta del movimento, sancita da un accordo sulla cassa integrazione che correttamente Garavini difenderà.
Più tardi, divenuto Segretario nazionale della Fiom, è l'unico dirigente della Cgil a sostenere Berlinguer nella scelta di opporsi al decreto Craxi contro la scala mobile con il referendum. Successivameente, sempre più isolato nel sindacato, dirige i tessili, organizzando grandi lotte e concludendo contratti decenti in tempi bui. Poi verrà eletto deputato ed assumerà il ruolo di ministro ombra del lavoro nella precaria e fallimentare esperienza di “governo ombra” promossa dal "nuovo Pci" di Occhetto all'inizio del 1989.

La Bolognina e la rifondazione comunista
Sul finire del 1989, nel momento della svolta occhettiana, Garavini vi si oppone e partecipa insieme a Natta, Ingrao, Tortorella ed altri all'esperienza della "mozione 2", intitolata alla rifondazione comunista. Ma nel 1990 al Convegno di Arco rifiuta l'impostazione di Ingrao di rimanere comunque nel nuovo Partito. Le ragioni di questa scelta nascono dai contenuti del nuovo inizio postulato da Occhetto. Il partito che si delineava era di carattere democratico "all'americana". Senza alcun riferimento al socialismo ed alla classe operaia. Garavini scriverà: "Se fosse nato un partito sociademocratico, una componente comunista avrebbe avuto un senso. Ma non potevamo diventare la sinistra di un “partito democratico”.
Dopo l'ultimo tentativo di costruire con il nuovo partito di Occhetto una federazione, svolto al Congresso di Rimini del 1991, nasce il Movimento per la rifondazione comunista, di cui Garavini è nominato coordinatore. Il Movimento ha una strana configurazione: vi opera una componente da tempo organizzata, guidata da Armando Cossutta, nostalgica della vecchia Unione Sovietica da cui al tempo di Breznev e poi di Cernenko aveva ricevuto appoggi e finanziamenti. Vi avevano però aderito molti militanti del Pci di matrice ingraiana o berlingueriana, gruppi della sinstra critica e Democrazia Proletaria. Garavini si spende moltissimo nell'impresa ed è proprio grazie a lui che in tante città e paesi, compagni assai restii fanno la scelta di Rifondazione. Accade anche a Perugia ove quadri di base del vecchio Pci aderiscono al movimento solo grazie alla garanzia rappresentata da Garavini. In dicembre il movimento si trasforma in partito; Garavini ne viene eletto segretario, ma c'è uno scontro furioso sulla presidenza di Cossutta. I compagni più vicini a Garavini ritengono che quella presidenza dia al partito un segno nostalgico e sbagliato e impedisca una vera rifondazione. Materia politica del contendere è tra l'altro l'intenzione di Garavini di procedere ad una radicale messa in discussione del movimento comunista del ventesimo secolo e della storia stessa dell’Urss e del Pci in chiave democratico-libertaria. Alle elezioni del 1992 lo dichiara, con grande scandalo dei cossuttiani, alla Tribuna elettorale televisiva: "Siamo comunisti e libertari", rivendicando la sua storia antica di dissidente e di sostenitore del dissenso. C'è un altro punto di frizione con i cossuttiani: riguarda i caratteri sociali della nuova formazione politica. Cossutta e Libertini mirano a un partito "popolare", propagandistico, prevalentemente insediato nelle istituzioni. Garavini vede invece un nesso strettissimo tra le tendenze ad una "seconda repubblica" autoritaria, o comunque meno democratica, e ciò che accade in fabbrica e più in generale nei luoghi di lavoro. Egli critica perfino quella sinistra del Pds che afferma il primato della questione sociale su quella istituzionale ricordando che tra istituzioni e società esiste un nesso inscindibile: "Come sempre, nei momenti di crisi tutto si tiene. Porre in secondo piano nelle istituzioni la partecipazione democratica, corrisponde al menomare nella società la democrazia sindacale e il carattere sociale della cooperazione ... c'è una relazione tra l'attacco al porporzionale e alla partecipazione democratica, l'esaltazione dei ruoli di governo, da un lato e dall'altro lato le politiche privatistiche e liberistiche".
C'è dunque una coerenza di fondo in Garavini che si porta dagli anni della Fiat, quella del legame costantemente affermato tra i diritti e i poteri democratici di base e le forme rappresentative di governo. La rottura con Cossutta si consuma l'anno successivo, in concomitanza con le elezioni amministrative che vedono il Prc come primo partito della sinistra sia a Milano che a Torino. Garavini ritiene che bisogna mantenere aperto il partito, sostiene il movimento dei delegati e la Convenzione dell'alternativa, considerati forme di un processo di crescita e di ristrutturazione complessiva della sinistra di ispirazione socialista e comunista. Cossutta e i suoi, insieme a Libertini, sostengono che egli vuole distruggere il partito; affermano che il partito c’è già e che, se Ingrao e Bertinotti, appena usciti dal Pds, vogliono, possono prendere la tessera. Nei centri minori gli uomini di Cossutta parlano del brutto carattere di Garavini. E sul brutto carattere (vecchia argomentazione degli stalinisti quando sono deboli), confermato dalla sua volontà di tenere a Torino un comizio che Cossutta non voleva, si basa la polemica al Comitato nazionale in seguito alla quale una ridotta maggioranza accoglie le dimissioni di Garavini. Dopo la sua defenestrazione, al Congresso, Bertinotti viene iscritto direttamente alla segreteria generale del partito e si dà l'avvio alla non lunga diarchia Cossutta-Bertinotti.
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La tenacia, la modestia e la coerenza
Intanto sulla fiducia al governo Dini molti dei fondatori di Rifondazione, incluso Garavini, si allontanano dal partito o ne sono allontanati. Alcuni danno vita al movimento dei Comunisti unitari. Sergio si impegna, attraverso una Associazione per la sinistra di cui diviene il presidente, ad una elaborazione che riconnetta i fili della questione sociale e istituzionale e favorisca un dialogo a sinistra che non funziona se non in termini di accordi elettorali o di potere. E' la battaglia dei suoi ultimi anni, mesi e giorni, che ha condiviso con noi e in cui impegnò tutte le sue energie, realisticamente prevedendo una crisi profonda della forza sociale ed elettorale della sinistra italiana.
Scrisse anche un libro importante, di riflessione non solo storica ma anche teorica, Ripensare l'illusione, una sorta di testamento in cui corrobora con analisi e riferimenti fattuali il suo socialismo marxista, democratico e libertario. Forse, ripensando a questi ultimi anni di battaglia controcorrente e di minoranza gli saranno state di conforto le parole che scrisse nel libro sugli anni della Fiat, come forse possono essere di conforto a noi: "Bisogna imparare molto dagli anni più bui e dalla sconfitta per prendere coscienza delle cause che l'hanno determinata, del modo con cui si è lottato contro la sconfitta quando la ripresa di lotte era ancora lontana ... Bisogna imparare nuovamente tutti la grande lezione di tenacia, modestia e coerenza di un gruppo di operai classisti della Fiat, che hanno compiuto nella seconda metà degli anni Cinquanta un'opera di storica importanza".

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