13.7.10

L’italiano una lingua sempre più povera. La scuola la trascura, i telefonini la sminuzzano.

Dalle Parole in corso del 26 aprile 2010, la rubrica di Gian Luigi Beccaria su "Tuttolibri", il settimanale di informazione editoriale de "La Stampa", recupero questo prezioso intervento. Con l'abituale cortesia il grande linguista si produce in una denuncia che è, in primo luogo, politica. Sono tra quelli che vorrebbe difesi tutti i beni culturali, specie quelli che fondano l'identità nazionale, per esempio la musica lirica e lo spettacolo dell'Opera; ma in una scala di priorità viene prima la lingua. La vergognosa deriva di decadenza in cui i governi della cosiddetta "Seconda repubblica", specialmente quelli di destra, stanno trascinando la scuola italiana e, con essa, la lingua nazionale, la sua ricchezza, la sua versatilità è un crimine. Non sarebbe male che le sagge parole del professor Beccaria fossero più conosciute, diffondessero consapevolezza e ribellione contro la protervia di Berlusconi, Gelmini & c., la cui propaganda, a ben vedere insensata, va cianciando di "recupero di severità", di "ritorno di Dante" e simili. Su un argomento contiguo rinvio anche a un precedente post, critico verso lo stravagante filosofo Reale, che, di fronte a questo sfascio, continua a prendersela con il Sessantotto (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/07/al-68-quelche-e-del-68-berlusconi-quel.html)

Quasi un luogo comune è diventato il lamento quotidiano sull’impoverimento in atto della nostra lingua. Ma questo vale anche per le altre, cui tocca oggi la stessa sorte. Diceva Lázaro Carreter, in un suo libro fortunato, El dardo en la palabra, che se agli spagnoli togli l'aggettivo bonito, molti non saprebbero più parlare. E si potrebbero citare gli americani, per i quali ogni cosa è fantastic o lovely, e tanto basta. Un grande mare di parole sulla bocca di molti (troppi) si è ristretto in uno stento rivoletto.

Da noi una delle cause (penso alle persone mediamente colte) è certamente la conoscenza sempre più rarefatta del latino, che ha ridotto di molto l’utilizzazione di una certa parte del lessico derivato non per via diretta dalla nostra lingua madre, ma dalla tradizione scritta di quella lingua. Gran parte della parole definite da De Mauro nel suo Dizionario come di «basso uso», cioè rare, o «letterarie», quelle che ai più risultano oggi opache, di significato oscuro, sono tutte latinismi evidenti: diuturno, esiziale, castigato (nel senso di «verecondo»), inane, egro, ludico, foriero, preconizzare ecc.

Si capisce perché oggi sia diventato un problema serio spiegare a scuola la nostra letteratura, specialmente quella dei secoli passati, così colma di parole del genere. Ci sono poi le circostanze generali, decisamente sfavorevoli: non aiuta per esempio il fatto che computer e telefonini siano diventati i principali strumenti di comunicazione. Vi circola un lessico poverissimo, esiguo, si messaggia con crocette, ideofoni da fumetto, e tante ellissi. Anche i media danno il loro contributo negativo: penso al livello basso dello straparlare televisivo. La scuola potrebbe fare molto, se si volesse rifondare, darle ossigeno in soldoni, invece di farla andare a fondo con tagli e riduzioni.

Servirebbero ore a disposizione per una riflessione costante sulla lingua, per esercizi sulla costruzione di testi, variati per registro e punti di vista. Si dovrebbe tornare alla pratica dei riassunti, delle parafrasi, e premere soprattutto sulla lettura, per facilitare l'arricchimento del lessico. E aiuterebbe un'attenzione particolare per le lingue speciali, settoriali, scientifiche. Infine servirebbe tantissimo poter tornare all'analisi dei testi letterari, per cercarvi innanzitutto la spiegazione letterale, per sottolineare particolarità e peculiarità del lessico, dei significati..., forse varrebbe più la pratica che la grammatica.

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