27.7.10

Era d'estate. Genova 1960: la cacciata. Genova 2001: il ritorno.

Nelle scorse settimane, su questo blog, ho raccolto diversi contributi e raccontato direttamente alcuni momenti della calda estate del 1960, quella del governo Tambroni e dei morti di Reggio Emilia. Manca – credo – una rievocazione e una specifica riflessione sui fatti di Genova e sulla loro “durata”. Provvedo qui.

Nel 1960 Genova era una delle città più rosse d’Italia, ma era anche la città del cardinale Siri, dichiaratamente conservatore, il quale al tempo si opponeva nettamente a ogni “apertura a sinistra” e auspicava una stretta autoritaria. Un giovane brillante sacerdote della sua Curia, da lui incoraggiato, Gianni Baget-Bozzo, aveva reso esplicite le sue simpatie per una “Seconda repubblica” presidenzialista e appoggiava palesemente il governo Tambroni, sostenuto dai missini.

Il Msi (Movimento sociale italiano) neofascista, guidato da Arturo Michelini interpretava quel governo come un punto di approdo di una lunga strategia di inserimento. Era forte soprattutto nell’esercito, nella magistratura, nell’alta burocrazia, per effetto di un paradosso. Nei punti chiave degli apparati, in ossequio alla regola dell’anzianità, nel Ventennio c’erano funzionari cresciuti nell’Italia monarchico-liberale, che con qualche libertà interpretavano l’adesione al Regime; ora invece accadeva che i “fascisti onesti” (quelli su cui non pesavano specifici crimini), amnistiati e reintegrati nell’ufficio dal Guardasigilli Togliatti, fossero giunti al vertice della carriera e trovassero una sponda in un partito che stava nell’anticamera del governo e portava iscritto nel nome il riferimento alla repubblica collaborazionista (Rsi).

Secondo Filippo Anfuso, esponente importante della repubblica di Salò e poi parlamentare missino ( vedi http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2009/12/una-storica-sentenza-del-tribunale-di.html), al tempo di Tambroni tra i neofascisti si progettava un cambiamento di nome, che segnalasse in un congresso un distacco formale dal passato, favorisse l’unificazione con i monarchici, consentisse la piena legittimazione e il pieno inserimento al governo del nuovo partito di estrema destra. Volevano che quel congresso si svolgesse a Genova e pensavano di avere le loro ragioni.

Genova era città che più di altre aveva subito la repressione nazifascista, e vi si era massicciamente ribellata cacciando i tedeschi due giorni prima del 25 aprile: era Medaglia d’oro della Resistenza. Ottenere di svolgere a Genova il loro congresso era per i missini il prezzo del sostegno al governo e la sanzione della loro completa rilegittimazione. Tambroni autorizzò il congresso, così sfidando i socialisti, i comunisti e le stesse sinistre della Dc. Aveva ottenuto un avallo insperato. Scelba, potente ex ministro degli Interni ed ex presidente del Consiglio, non amava né Tambroni né il suo grande protettore, il presidente della Repubblica Gronchi; ma proprio lui a Genova, ai primi di giugno, aveva dichiarato che un partito rappresentato in Parlamento come il Msi doveva poter tenere il proprio congresso ovunque: non si potevano accettare veti dalla piazza.

La tensione in città fu aumentata da un’ulteriore provocazione: i missini fecero sapere che il congresso convocato per il 2 luglio sarebbe stato presieduto da Carlo Emanuele Basile, uno dei peggiori torturatori del regime fascista, ancora ricordato in città. Dal governo fu poi mandato a Genova un nuovo questore, Lutri, che durante il fascismo aveva guidato la squadra politica a Torino e nel dopoguerra s’era distinto nella repressione di scioperi e dimostrazioni.

La prima reazione di massa si ebbe il 25 giugno con un corteo organizzato all’Università. Il concentramento era in una piazza vicina al porto. Con gli studenti manifestavano molti professori e si aggregarono giovani operai, impiegati, ragazzi delle scuole superiori. Le sirene della polizia, usate per intimidirli, allarmarono portuali ed operai delle fabbriche: accorsero subito, con ganci e sbarre di ferro, per difendere i giovani. La polizia non riuscì a disperdere il corteo.

Nei giorni successivi cresceva nelle piazze e nei ritrovi popolari la tensione antifascista. I partiti di sinistra, la Cgil e il Consiglio della Resistenza ligure intanto organizzavano manifestazioni in serie: il 2 luglio avrebbero avuto il momento culminante. I volantini suggerivano che, mentre i fascisti avrebbero svolto i loro riti nel salone Margherita circondato dai carri armati, la massa del popolo avrebbe ascoltato in pieno sole le parole di Ferruccio Parri. Ma l’obiettivo dell’isolamento del Msi sembrava non bastare ai giovani e agli operai. Il 28 Sandro Pertini, interpretando la spinta di base e abbandonando le altrui prudenze, proclamava che il congresso non si doveva fare.

Il 30 giugno per lo sciopero generale della Cgil (la Cisl, mentre rifiutava lo sciopero politico, lasciava agli iscritti libertà di scelta) il corteo era enorme. Ma il governo aveva mandato quindicimila tra poliziotti e carabinieri armati di tutto punto e tra essi il battaglione motorizzato Celere di Padova, che intervenne con ripetuti caroselli.

Le cronache della battaglia hanno toni epici. La città è tutta coi dimostranti: soccorre i feriti e attacca dai vicoli ove le jeep non riescono ad entrare. Dalle finestre arrivano vasi, acqua calda, olio. Adesso è la polizia a doversi difendere: le camionette sono rovesciate dai camalli e la Celere arretra. A tarda sera giunge la notizia che il convegno fascista è stato annullato, ma i presìdi non smobilitano e, anzi, il 1 luglio la protesta riparte, sulla linea del discorso di Pertini:“La Resistenza va difesa, costi quel che costi”.

I capi del Msi rientrano a Roma e lunedì 3 a Montecitorio Giorgio Almirante dichiara:“Dobbiamo salvare la faccia davanti ai nostri iscritti”. I missini tuttavia non tolgono immediatamente l’appoggio al governo, trattano con Tambroni. Il 4, al Senato, il ministro dell’Interno Spataro fa un discorso assai minaccioso contro “la piazza eversiva”. L’indomani, mentre il Senato approva il bilancio del Ministero degli Interni, “Il secolo d’Italia” scrive: “Alla piazza scatenata e feroce non basta contrapporre discorsi”. I “fatti” richiesti arrivano: il giorno stesso un morto a Licata, il 6 la carica dei carabinieri a cavallo a Roma , il 7 i sei morti di Reggio Emilia. Quando la notizia arriva alla Camera, i socialisti chiedono che il governo se ne vada. Tambroni replica freddo: “Il governo farà interamente il suo dovere e difenderà lo Stato, le sue libere istituzioni e la sicurezza dei cittadini”. L’8 il presidente del Senato Merzagora, un indipendente di centro-destra, propone una tregua: niente manifestazioni, polizia ed esercito consegnati nelle caserme. La sinistra, la Cgil, le organizzazioni della Resistenza approvano; Dc, Cisl, neofascisti e monarchici no. Lo stesso giorno la polizia torna ad uccidere a Palermo e a Catania. Tambroni ostenta sicurezza: “L’ordine e la legalità sono stati ristabiliti in tutto il paese … il partito comunista è stato duramente battuto e, se riprovasse, avrebbe la peggio”. Sembra il trionfo suo e del Msi, ma non è così. Il socialdemocratico Saragat attacca il governo e il liberale di destra Malagodi si dissocia. Nella Dc isolata e ricattata dai neofascisti inizia un duro confronto che si conclude con le dimissioni di Tambroni e la sua fine politica.

E’ alla fine anche la strategia missina dell’inserimento. I neofascisti, che si erano immaginati vicinissimi al potere, tornano nelle fogne: da ora in poi saranno esclusi dal gioco politico aperto, tutt’al più potranno fornire qualche appoggio sottobanco. Nasce (adesso e non prima) l’“arco costituzionale”: la discriminante antifascista nella Dc comincia a contare quasi quanto la discriminante anticomunista.

La vicenda di Genova, nell’immaginario dell’estrema destra italiana, diventò da quel momento emblematica di una sconfitta vergognosa, di un’onta paragonabile solo al 25 aprile. Al risentimento ed al rancido rancore lungamente e obbligatamente coltivato dai neofascisti sembrò però offrirsi, molti anni dopo, un risarcimento.

Nel maggio del 2001, da tempo sdoganati da Berlusconi, con un nome che non rievocava più i fasti di Salò (An), legittimati da D’Alema e Violante, i neofascisti rientrano trionfalmente al governo. Gianfranco Fini, figliocccio politico di Almirante, è vicepresidente del Consiglio e dice ancora bene di Mussolini. Per il mese di luglio a Genova è previsto il G8 e con esso le iniziative di contestazione del movimento mondiale contro la globalizzazione neoliberista. Fini sente che è l’ora della rivincita e a Berlusconi dice: “Genova è per noi”. Chiede (e ottiene) una sorta di incarico per seguire il doppio raduno e non gli pare vero di militarizzare la città della Lanterna, di delimitarla in zone più o meno protette. C’è, documentato, un clima di provocazioni, anche poliziesche, che sembra agevolare una risposta “storica” alla “piazza rossa” nell’odiata città medaglia d’oro della Resistenza. Dalla Festa d’aprile sono passati 56 anni, dal governo Tambroni 41, la città è molto cambiata sotto il profilo sociale e la sua forza operaia è in gran parte disgregata; ma in una comunità chiusa, come è stata quella del Msi-An, i simboli hanno una grande potenza e durata. L’impressione è che anche stavolta, come nel luglio 60, il morto tra i dimostranti (non necessariamente Carlo Giuliani, uno qualunque) se non cercato, sia auspicato. Fini, a Genova per seguire l’ordine pubblico, forse dorme quando si svolge il gratuito pestaggio di decine e decine di giovani inermi da parte di poliziotti nuovamente trasformati in strumenti di repressione. L’indomani sarà lì a negare e a difendere, mentre qualcun altro copre e depista perché gli autori rimangano impuniti. Uno dei luoghi in cui si è svolto il misfatto è una scuola intitolata a Sandro Pertini. Forse non è un caso.

Oggi Fini si presenta nel ruolo di una destra moderna, democratica e legalitaria, e sfida Berlusconi. Ha preso posizioni nette sull’Olocausto, sul fascismo, sul razzismo, sull’integrazione degli immigrati, e tanti nel centrosinistra lo accreditano come possibile interlocutore. Io prima di aprire il dialogo gli chiederei conto e ragione. Di Genova 2001, se non di Genova 1960.

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