12.7.10

"Ancora a Reggio Emilia". L'8 luglio 60 a Catania e a Palermo" (di Giorgio Frasca Polara)

Il breve testo rievocativo delle manifestazioni popolari e degli assassini polizieschi dell'8 luglio 1960 a Catania e a Palermo è tratto da un articolo un po' più ampio di Giorgio Frasca Polara che si può reperire sul sito di "libertà e giustizia" (http://www.libertaegiustizia.it/2009/07/06/tambroni-e-il-luglio-caldo-del-60/#more-3545)



In risposta all’eccidio di Reggio l’indomani è in atto un nuovo sciopero generale nel Paese. E stavolta esplode la rabbia di Catania e di Palermo. Nella città etnea i carabinieri ammazzano un giovane edile, Salvatore Novembre, diciassette anni: prima è massacrato a colpi di calcio di moschetto e poi, quando ormai è riverso esanime sul ciglio di un marciapiede, viene finito con due colpi di quello stesso fucile. A Palermo il bilancio sarà più tragico: quattro morti e cinquantuno feriti gravi. Ma accadrà che non per qualche giorno ma per anni ci si dimenticherà (nei rapporti di polizia, nelle controrelazioni, persino nei molti libri sugli accadimenti del Luglio ’60) di una delle vittime, e per un impressionante particolare.

Tutto si consuma in poche ore, la mattina di quel venerdì 8. Una folla immensa che si era radunata, alla confluenza di due cortei, tra piazza Politeama e piazza Massimo è praticamente imbottigliata da truppe armate e decise a tutto, persino a lanciarsi con la baionetta inastata contro Pompeo Colajanni, il popolare comandante partigiano Barbato, nel tentativo di ucciderlo.

La rabbia esplode. Ma da un lato ci sono le mani e le aste dei cartelli, dall’altro lato i moschetti, i mitra, le pistole. Inerme e indifeso è il primo a cadere ucciso, Francesco Vella, quarantadue anni, operaio edile, gran diffusore dell’Unità. Poi è la volta di Andrea Gangitano, quattordici anni, venditore ambulante di mazzetti di gelsomino. Quindi – a testimonianza dell’ordine di sparare dovunque e comunque – Rosa La Barbera, cinquantatre anni, è uccisa da una pistolettata calibro 9 in pieno petto mentre al terzo piano sta chiudendo le imposte di una finestra di casa. Ma all’elenco delle vittime manca (mancò a lungo) un nome, quello di Giuseppe Malleo, sedici anni, apprendista edile, militante della gioventù comunista. Era uno dei feriti gravi, raggiunto da un colpo di moschetto alla nuca sparato contro un grappolo umano inerme e indifeso che volgeva le spalle alle truppe che sparavano piombo e bombe lacrimogene. Pino fu dimenticato. Morì il 29 dicembre, cioè dopo sei lunghi mesi di sofferenze atroci: operato più volte andò in agonia sotto le feste. Non si tratta di rivendicare “una vittima in più”.

In Sicilia i moti libertari e le lotte per il lavoro e la democrazia hanno una lunga storia di splendide imprese e di tragici sacrifici con un pesante bilancio di sangue in cui vanno annoverati anche più di cinquanta tra capilega, capipopolo, dirigenti sindacali e semplici lavoratori uccisi dalla mafia in questo dopoguerra. E pure Pino Malleo fa parte di questa lunga storia, di questo tragico elenco.

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