15.7.10

Ancora a Reggio Emilia. "I morti programmati e la strategia della provocazione".

Reggio Emilia, 7 luglio 1960. Il corpo di Lauro Farioli, 22 anni.

Annibale Paloscia, per 20 anni caposervizio all’Ansa, ha scritto un libro dedicato un libro ai fatti del “luglio 60”, Ai tempi di Tambroni. Una delle cose che ha raccontato è che nelle manifestazioni di protesta della sinistra, a partire da quella di Genova del 28 giugno, c'era una presenza massiccia di agenti in borghese e, in una intervista, ha aggiunto che, da più di una testimonianza, può ricavarsi che in borghese erano alcuni tra i poliziotti che spararono, a Reggio Emilia e altrove.

Questo tipo di presenze, specie quando sono numerose, sono sospette: sono il segno che non si vogliono impedire disordini, ma che li si vuole fomentare e se ne vogliono aggravare gli effetti. L’abbigliamento borghese, cui a volte si aggiunge qualche altro tipo di mascheratura, è utilizzato, infatti, sia per operazioni di provocazione, sia per affidare a poliziotti-nonpoliziotti il lavoro più sporco e illegale. Tra le operazioni di provocazione più tradizionali ci sono quelle di rompere vetrine, rovesciare cassonetti e automobili, qualche volta incendiarli per attribuirne la colpa ai dimostranti e favorire successivamente la repressione giudiziaria; o altre, che sortiscono un effetto immediato: gli agenti provocatori lanciano sassi o oggetti o bombette, per giustificare assai più dure risposte dai colleghi in divisa: con idranti, gas, manganelli o addirittura armi da fuoco. Il lavoro degli agenti provocatori in borghese è ancora più sporco si ha quando, per una qualche ragione, i caporioni politici che li usano vogliono il morto o i morti, o almeno qualche ferito grave: allora mentre i poliziotti in divisa sparano in aria, come da regolamento, a scopo d’intimidazione, i travestiti sparano ad altezza d’uomo.

Non so dire se la tesi di Paloscia, ampiamente documentata in diverse situazioni, sia generalizzabile; mi pare tuttavia certo, da un’infinità di testimonianze, che gli incidenti vennero cercati e i morti furono voluti dal governo. A Licata per esempio non c’è alcun avviso di scioglimento del corteo, ma si spara direttamente e alcuni lo fanno ad altezza d’uomo (http://salvatoreloleggio.blogspot.com/2010/07/ancora-reggio-emilia-ancora-la-in_12.html). A Roma la manifestazione è prima autorizzata e poi annullata, quando non si può più evitare la concentrazione delle persone a Porta San Paolo: è Tambroni in persona ad ordinare al capo della polizia Calcaterra, davanti al segretario missino Arturo Michelini, di sciogliere l’assembramento “a tutti i costi”. A Reggio Emilia, da una registrazione fatta sul posto, risulta chiaro l’ordine rivolto a polizia e a carabinieri: “Sparate nel mucchio”. A Palermo l’8 luglio Tanino Schillaci e altri compagni, che erano presenti e vicini, mi hanno testimoniato che quello di Francesco Vella fu addirittura omicidio intenzionale, probabilmente diretto alla sua figura di attivista politico e sindacale. Qualcuno dice che l’agente che prese la mira e sparò non era neppure in divisa: in ogni caso non operò nascosto. Doveva risultare chiaro che veniva punita la militanza di Vella.

Da tutto ciò il sospetto che i morti a Reggio Emilia e in Sicilia, che le centinaia di feriti dappertutto, fossero frutto non del caso, ma di una strategia, esce confermato. Su quanto avvenne dietro le quinte non c’è molto a disposizione, benché in molti passaggi della storia appaiano fantasmi inquietanti: l’ambasciata Usa e la Cia, attivissime dopo che l’affare U2 sembrava aver rilanciato la guerra fredda, la Gladio, gli Uffici speciali del Ministero degli Interni, la Confindustria. E’ difficile dimostrare che tutto era, fin dall’inizio, programmato verso un esito golpista, ma che lì potessero portare l'esplicita sfida alla "piazza rossa" iniziata ai primi di luglio, l'esacerbazione dei conflitti, la ricerca della provocazione e del morto appare fin troppo ragionevole.

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