6.6.10

"Spegni quella maledetta tv" (di Maria Jatosti)

Maria Jatosti fu, nei suoi ultimi, intensi e duri 15 anni, la compagna di Luciano Bianciardi, uno dei più grandi talenti della letteratura italiana del Novecento. Ma è anche, in proprio, poetessa e scrittrice interessante. Ultimamente sta preparando un libro di racconti per Feltrinelli, del quale ha anticipato due brevi stralci ne “Le reti di Dedalo”, la rivista on line del Sindacato Scrittori. Dichiara che la sua ambizione è “rivelare segreti mascherandoli da verità oggettive”.

Spegni quella maledetta tivù, tanto non si sentono che cavolate, volgarità, ovvietà. Tutti sanno tutto: anchor-men, psicologi, touch-à-tout, maghi, mestatori, imbonitori, manipolatori di verità, politici d’avanspettacolo, soubrette e veline. Stanno lì, mostrano le tette il culo o la faccia che è lo stesso e parlano, parlano... Ti riempiono di parole. Ora, se le spogli delle idee, se le privi del pensiero, le parole sono nulla: pura astrazione. Senza la forza del pensiero filosofico non si muove foglia.

Quello era Dio: che “Dio” non voglia.

Non scherzare: siamo nella merda. Tu sei poeta e con le parole ci giochi, ti innamori dei suoni, ma per costruire ci vuole l’idea che si fa pensiero che si fa progetto. Sul nulla si edifica il nulla. E dal nulla nasce il nulla. Ma un nulla assordante, che fa paura.

D’accordo. E dunque? Che fare? Darsi allo yoga, allo yogurt, alla meditazione? Coltivare le filosofie orientali, indagare il proprio profondo ascoltando il pensiero. Abbracciare il buddismo. Adottare la medicina alternativa. Intonare preghiere e canti mantrici. Imparare il sanscrito. Selezionare le immagini. Vivere pacificati l’Adesso – domani è un altro giorno –… Contemplare il movimento incessante delle nuvole, il mare e il cielo che scolorano spegnendo l’orizzonte, la prima stella che s’accende, il sorriso di un malato terminale. Ascoltare il ritmo della pioggia sui tetti delle auto, sul porfido dei selciati romani. Osservare la furia distruttiva delle onde anomale, le colate di fango e di lava, la melma che inghiotte le abitazioni indiane, gli effetti del fosforo bianco sulla pelle delle donne e dei bambini di Falluya, la faccia del giornalista decapitato dai talebani. Inseguire il passaggio delle oche sul lago del Circeo, lo zampettare di un gabbiano sui montarozzi de monnezza in riva al tuo fiume giallo. Cercare il fantasma del poeta di Ario, tra le mura del castello di Ballylee. Fissare negli occhi l’assassino prima che sferri il colpo fatale. Scrivere a un amico lontano che sai di non vedere mai più. Scrutare il terrore sul volto dell’adultera lapidata, dell’infedele sgozzata. Rifiutare la pappetta edulcorata quotidiana, il gradevole che avvolge, che macina e rode il pensiero critico. Acuire l’attenzione. Difendere il dubbio, la forza della fragilità Rifiutare la politica dei politici, senza cadere nella china del nichilismo, del vittimismo sterile, del mugugno distruttivo. Negare la letteratura dei letterati; scrivere come andare in battaglia, misurando i mezzi, studiando il campo, lo scenario, il nemico. Ridare forza alle idee. Diffidare dell’alibi della contingenza. Denunciare la propria condizione di ospiti ingrati in un mondo impermeabile, molteplice e confuso. Liberarsi delle mitologie ideologiche, prima che diventino meri simboli metafisici: la Resistenza, la Grande Madre Russia, il Potere del Proletariato, la Rivoluzione permanente... Che immane pasticcio.

E io, cos’è che volevo fare, io? Vivere. Capire. Affrontare i conflitti. Coltivare a tutti i costi la Speranza, l’Utopia. Sì, compagni, questo volevo fare. Scrivere, mettere insieme i pezzi della vita, produrre linguaggi diversi. Affilare le parole perché buchino sanguinosamente la scorza dell’indifferenza, facciano male... Uccidere i ricordi che vorrebbero uscire dalla nebbia, prendere corpo e premono, chiedono ordine, rigore, giustizia. No. Non ora. Ora voglio scrivere un libro diverso: la storia di un Jean Sorel nella Francia opaca di oggi, un giovane che ignora le passioni e ne finisce travolto. O magari la storia di un afroamericano che da ragazzino ha visto impazzire la madre di fame, morire il padre per mano degli uomini col cappuccio, che ha conosciuto il crimine, il carcere, la lotta dura per affermare i diritti del suo popolo, e poi il tradimento, la diaspora, e infine, non ancora quarantenne, l’assassinio da parte degli stessi fratelli. Voglio raccontare la storia di un Richard, piccolo, sgorbio, più corto di un braccio e di una gamba, deriso dai compagni, bastonato dal padre, che morde la vita suonando e cantando per strada, nei bordelli, e inventando il rock’n’roll. Oppure la vicenda umana di una donna nera, cresciuta tra emarginazione, fame, rabbia: il pianoforte, la fuga dalla miseria, i night. Ehi, tu, basta con questa solfa o canti o te ne vai. Di lei che si costruisce una voce, unica, da brivido, cambia nome, ha successo, incontra uomini potenti i quali, amandola, la umiliano, la massacrano di botte. Di lei dura, Jenny dei pirati tutta vele e cannoni, che segue i grandi brothers Malcolm e Cassius-Mohamed e porta in giro la sua voce struggente, fino alla fama: Parigi, Brel, ne me quitte pas, la prima casa a Aix-en-Provence. L’alcool, la morte…

La sua voce mi graffia la pelle, scava fosse di dolore – quanto dolore! – dal computer di Paolo, questa mattina di primo gennaio primo dell’anno di pioggia e di silenzio, il suo francese impastato nella bocca, tra i denti: nemmechitteppà nefottiubblié... la mia emozione fino alle lacrime: fammi essere l’ombra della tua ombra, l’ombra della tua mano, l’ombra del tuo cane… Parole terribili: si può amare fino a questo punto? Non lo so. Ho dimenticato. Ma no. L’ombra della tua ombra, l’ombra del tuo cane, no, miei amatissimi amori. La canzone è struggente e Brel è davvero il più grande di tutti. I borghesi più invecchiano e più sono brutti i vecchi sono soli ad Amsterdam il paese piatto che è il mio e non è la Lombardia mio disperato amore che vieni e che vai ne me quitte pas non andare via non andare via non andare via. Non andare via... (Su una spiaggetta selvatica del litorale nord di Roma guardo il mare di marzo, ancora invernale. Cerco di assuefarmi ai ritmi di una nuova vita. Lo sciaguattìo regolare dell’onda lunga induce una quiete ipnotica. Poco più in là brancolano le ricerche del covo brigatista in cui muore Aldo Moro.). Sì, se avessi il tempo, i mezzi, la convinzione dell’utilità di continuare a scrivere, mi piacerebbe raccontarla la storia di questa Nina Simone, cantante afroamericana poco conosciuta in Italia, amica di Malcolm X, una donna del Sud. Nata nel sud degli Stati Uniti, morta nel sud della Francia. O quella di Giuliana, anima bella, che a ottant’anni scopre la dolcezza dell’amore e della libertà. Ma prima Nina. La sua voce dal computer oggi mi colpisce al cuore, mi inchioda alla poltrona, ammutolita e sono gelosa di questa emozione e vorrei trattenerla ma un clic rompe l’incantesimo. Si va avanti. Altro cantante. Altra storia. Il momento è passato. Incalza la vita febbrile categorica approssimativa ingannevole come i titoli del giornale spalancato sul tavolo: la lotta all’evasione fiscale, l’indulto, i bombardamenti su Beirut, la scommessa di Nasrallah, il terremoto nel calcio, la malattia del Lider máximo, il petrolio alle stelle, le minacce di Pechino, le confessioni di Günter Grass, il giovane pacifista assassinato in Palestina, l’esodo biblico dei somali… Fermatevi. Una goccia di anestetico, una coppa di vino rosso, una canzone, una carezza, una cosa qualsiasi, un attimo di sospensione, per favore, ridatemi la speranza, l’innocenza, il silenzio...

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