7.6.10

L'Italia una e trina e il ruolo del Mezzogiorno (Ignazio Delogu)

Ignazio Delogu è ispanista di prim'ordine, grande studioso e traduttore di Neruda tra l'altro, ma è anche un intellettuale a tutto tondo, capace di riflessioni storico-politiche di peso. Mi sembra che queste sue pagine, pubblicate su "Le reti di Dedalo", la rivista on line del Sindacato scrittori, affrontino in maniera corretta ed equilibrata il problema del passato e del futuro dell'Italia politica, reso urgente più dalla crisi che dalla Lega del destino. Credo che non sia più tempo per la sinistra di affidare la cosa alle quotidiane commemorazioni ed esternazioni di Napolitano, ma di farne oggetto di una grande discussione di massa.

Verso il 150° anniversario dell’Unità

L’Italia una e trina e il ruolo del Mezzogiorno

Una doppia riflessione sulle difficili, complesse e contraddittorie radici storico-politiche da cui si è generato il processo di unificazione nazionale.

Già il progetto iniziale di Cavour, scettico sulle aspirazioni degli abitanti della penisola, contemplava una divisione in tre Regni.

Oggi di fronte alle reiterate proposte della Lega indirizzate verso un federalismo ‘fiscale’ che sa tanto di secessionismo mascherato, occorre che siano le forze migliori del nostro Meridione a declinare diversamente il tema federalista, proprio per salvaguardare l’integrità dello stato repubblicano.

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di Ignazio Delogu

I.

Il progetto del conte di Cavour, era chiaro, non privo di realismo e, soprattutto, sostenuto da un non del tutto infondato scetticismo sulla capacità degli abitanti della Penisola di convivere onestamente in un unico stato unitario.

Italia, dunque, una e trina, secondo il comandamento teologico: un Regno del Nord (con l’appendice sarda, tollerata ma non gradita, tanto che si era pensato a un Regno di Sardegna da assegnare alla Casa di Lorena, in cambio del Granducato di Toscana), affidato ai Savoia; un Regno del Centro, sotto sovranità pontificia, e un Regno delle Due Sicilie, da confermare ai Borbone, purché se ne fossero mostrati degni. Pretesa, quest’ultima, piuttosto azzardata, ma dovuta alla radicata diffidenza del Primo Ministro piemontese.

Aveva un solo difetto, quel progetto. Contraddiceva un sentimento, un’aspirazione a riconoscersi nell’unità della nazione italiana che aveva trovato i suoi cantori e profeti in Dante e in Petrarca e, risalendo i secoli, nell’Alfieri e nel Foscolo e in Giusti, in Berchet, in Manzoni, in Verdi e in tanti altri che é superfluo citare. Quell’aspirazione aveva animato Pisacane e i Fratelli Bandiera, Luciano Manara e la sua II Legione Lombarda, aveva ispirato Goffredo Mameli e il suo “Fratelli d’Italia”, Mazzini e i suoi, Ferrari, Cattaneo e Garibaldi e fatto persino palpitare il cuore di uno stuolo di fanciulle che nel 1848, nella remota Sassari, nella lontana e quasi ignara Sardegna, avevano cucito un Tricolore da donare alla Guardia Nazionale appena costituita!

(Vero è che un altro sardo, garibaldino e poi Deputato al Parlamento, Vincenzo Bruscu Omnis, imbarcatosi a Quarto coi Mille aveva abbandonato la spedizione a Porto Talamone sospettando, non a torto, che Garibaldi andasse a conquistare un trono anziché a fondare una Repubblica).

Il progetto cavouriano morì prima del suo ideatore, con la proclamazione in Torino del Regno d’Italia, il 18 febbraio 1861. Quell’evento seppellì ogni progetto non solo federalista, ma autonomista e diede luogo all’affermazione di un centralismo burocratico e autoritario, sospettoso di ogni autonomia e diversità, impegnato a imporre un livellamento anti identitario a livello fiscale, giudiziario e persino linguistico e culturale.

L’Italia delle “alterità” e delle “alternità” ricomparve dopo Caporetto, vedi caso, quando per uscire dal baratro della disfatta unitaria, lo Stato Maggiore puntò sulla mobilitazione dello spirito regionalista, costituendo le Brigate regionali. L’Italia dei diversi cadde nel tranello e pagò a caro prezzo la sua ingenuità e la sua generosità, cinicamente ingannata dal Monarca e dal suo Stato maggiore.

Più di una generazione di contadini e di intellettuali si immolò nelle trincee del Carso, nella Bainsizza e nelle sciagurate offensive “alla baionetta” di generali inetti e sadici come Cadorna e Capello. La Brigata Sassari venne ricostituita più volte. Per saperne di più, leggere Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, o vedere il capolavoro di Mario Monicelli, La grande guerra.

Da quel bagno di sangue uscirono anche alcune novità. Il Partito sardo d’Azione, il Partito Molisano, un analogo partito in Sicilia, tutti nati dal movimento di Rinnovamento, dei Combattenti e Reduci, e il Partito Popolare e autonomista di Luigi Sturzo. L’istanza autonomista prese vigore, anche se, strumentalizzata da nazionalisti e fascisti, si esaurì ben presto sul Continente. Resistette in Sardegna, sostenuta con forza dai quattro Deputati sardisti in Parlamento, fino al suo scioglimento.

Da lì prese le mosse il progetto avanzato dai comunisti e da Gramsci in particolare, già nel 1923 successivamente approvato nel III Congresso nazionale del PCI (Tesi di Lione), di una Repubblica divisa in tre macroregioni peninsulari, più Sicilia e Sardegna. Il progetto, al pari di quello cavouriano, non ebbe seguito. Ma la Costituzione della Repubblica ne recepì la suggestione, riconoscendo l’autonomia speciale alle Isole, alla Valle d’Aosta, al Trentino-Alto Adige e al Friuli Venezia Giulia, e l’autonomia ordinaria alle rimanenti Regioni storiche. Sui risultati di quell’esperienza mancano a tutt’oggi studi coraggiosi e approfonditi, mentre una riflessione attenta é stata avviata nel decennio trascorso da storici e sociologi, sul Mezzogiorno e sul Meridionalismo.

Il federalismo di cui tanto si parla, ma sul quale non si riflette abbastanza, pone l’accento sulla riforma fiscale. Il che la dice lunga sull’occhiuta e avida pretesa di “risarcimento” del Nord,

derubato da “Roma ladrona” e dal Mezzogiorno nel suo insieme. Il rischio, questa volta, non è

che si giunga a un’Italia una e trina, ma a una sola Italia, quella del Nord, unica signora e

padrona. E ricca, per giunta!

II

Forse è tempo di riaprire il tavolo e di rigiocare la partita. A carte scoperte, questa volta. La partita è quella dell’Unificazione, della quale ricorre il prossimo anno il 150° anniversario.

Non si tratta di stabilire chi ha vinto e chi ha perso, basti dire che se per la Casa Savoia si trattò in certa misura di diplomazia e di conquista (la cosiddetta “lotta al brigantaggio” ne fu l’epilogo sanguinoso), per il Mezzogiorno si trattò di un regalo.

Non solo Garibaldi portò a Teano la Sicilia conquistata dai Mille ma, dopo lo sbarco nella penisola, Liborio Romano, ministro dell’interno e capo della polizia borbonica, consegnando a Garibaldi senza colpo ferire Napoli e il napoletano, evitò al re sardo quello scontro con lo stesso Dittatore e con le truppe di Francesco II, che avrebbe potuto portare a una sanguinosa guerra civile. Come spesso accade, l’ingratitudine ha oscurato quell’evento innegabile e ne ha cancellato la memoria.

Il 18 febbraio 1861, a Torino, il Parlamento del Regno di Sardegna, al quale, con “l’unione perfetta” del 1848 erano state aggiunte le provincie di terraferma, proclamò la nascita del Regno d’Italia. Premessa necessaria perché ciò avvenisse e incontrasse il favore o la tolleranza delle grandi potenze europee, era l’esistenza del Regno di Sardegna, nato nel 1326, nel momento stesso dello sbarco della spedizione catalana nel Golfo di Palmas al comando dell’Infante Alfonso detto il Benigno, senza del quale i Savoia, privati del Regno di Sicilia, avrebbero potuto ornarsi soltanto dell’onorifico quanto inutile titolo di Re di Cipro e di Gerusalemme.

Dovette riconoscerlo lo stesso Vittorio Emanuele, quando decise di chiamarsi II, nella successione di Sardegna, evidentemente, e non I d’Italia, come pure avrebbe potuto chiamarsi. Preferì affermare la continuità col Regno di Sardegna (per alcuni decenni il Regno d’Italia conservò la monetazione sarda, l’Inno nazionale sardo e l’intestazione postale, rinunciando alla bandiera dei Quattro Mori, per appropriarsi del Tricolore repubblicano, inserendo nello spazio bianco la Croce di Savoia!), per ragioni diplomatiche e di diritto internazionale

Che la quasi totalità degli storici italiani del Risorgimento consideri dettagli senza importanza i dati che ho appena riferito, e pretenda di ridurre la storia del Regno di Sardegna a “storia locale”, cosa che non è accettabile neppure per il Ducato di Modena o per quello di Parma e Piacenza, conduce inevitabilmente ad accettare il paradosso di uno stato che per non voler riconoscere le sue origini stenta a individuare il suo futuro. Ciò dimostra, se ce fosse bisogno, la necessità di riaprire la partita.

Come era da aspettarsi, e come avevano cercato di evitare federalisti come Cattaneo, Ferrari e il cattolico Gioberti, lo Stato unificato nacque e si sviluppò come stato accentrato, ottusamente burocratico e fiscalmente iniquo. Il Mezzogiorno ne pagò le spese. Sarebbe sciocco attribuirne la responsabilità alla sola classe dirigente monarchica e settentrionale. I “poteri forti” del tempo, preoccupati unicamente della difesa dei loro privilegi, vi si prestarono senza esitazioni. Lo scopo era uno solo, quello che il Principe Tommasi di Lampedusa ha riassunto icasticamente nel suo Gattopardo: “Cambiare tutto, perché nulla cambi”.

Oggi come allora continuare a dare le colpe dell’impoverimento, del degrado socioeconomico e del saccheggio delle risorse del Mezzogiorno, agli “altri”, chiamando fuori se stessi, oltre che negare l’evidenza storica, significa accollarsi responsabilità che non appartengono ai popoli del Mezzogiorno e delle Isole afflitti, secondo molti, da un’improbabile tabe genetica, ma alle classi dirigenti più che miopi, occhiute nella difesa dei propri privilegi economici e di casta. I teorici della “questione meridionale” sono stati spesso troppo indulgenti, anche perché preoccupati che alla questione politica e amministrativa, potesse sommarsi la questione sociale, col rischio di alimentare tendenze rivoluzionarie, che avrebbero potuto rendere effettiva quella che, invece, fu una “rivoluzione mancata”.

La successiva elaborazione della “questione” ad opera di Antonio Gramsci, mirava a coniugare la riforma autonomista (si pensi alla proposta scaturita dalla IV Conferenza Nazionale del PCI del 1924, di costituire cinque “Repubbliche Socialiste Sovietiste”, del Nord, del Centro e del Sud, più Sicilia e Sardegna), sia pure in termini abborracciati e scarsamente spendibili sul piano politico e sociale, e rivoluzione sociale, secondo un modello, quello dell’URSS, che azzerava la federazione a vantaggio di un centralismo e di un autoritarismo che si sarebbe rivelato fatale per la stessa Unione Sovietica.

Tre anni dopo il domicilio coatto a Lipari e la fuga dall’Isola organizzata da Emilio Lussu, Carlo Rosselli avvia la riflessione che doveva condurlo a rivalutare l’antistatalismo di Karl Marx, unitamente a quello del socialdemocratico Proudhon e dell’anarchico Bakunin, ad invocare l’unione dei partiti proletari e del neonato movimento “Giustizia e Libertà”, per realizzare il Federalismo integrale e liberale, unitamente alla rivoluzione sociale.

Non è qui il caso di discettare sull’attualità di proposte nate in contesti totalmente distinti rispetto a quello attuale. È importante però riprendere quel dibattito e portarlo a una definizione consona all’attuale situazione politica, economica, sociale e culturale, soprattutto di fronte a una proposta federalista della quale sono evidenti i limiti e, purtroppo, la strumentalità.

Essa si muove sostanzialmente in una prospettiva secessionista, laddove il Federalismo si muove nella prospettiva opposta: federa, promuove un foedus, cioè un patto che unisce rispettando le diversità. È il solo modo per salvare l’unità dello Stato, minacciata da particolarismi egoistici che hanno trovato nel cosiddetto “federalismo fiscale” l’espressione più rozza ma anche la più compiuta.

È troppo dire che l’iniziativa spetta al Mezzogiorno e alle Isole e che sarebbe auspicabile che il tema del federalismo, coniugato a una profonda riforma sociale, resa più urgente da una crisi che ha le sue origini nell’impossibilità del capitalismo “com’è” di assicurare stabilità, sicurezza e progresso, venga ripreso dalla sua classe politica?

Mettere al centro dei programmi politici il tema del Federalismo, significherebbe offrire ai giovani e a quanti hanno a cuore l’unità dello Stato repubblicano, una prospettiva non utopistica, ma saldamente ancorata ai bisogni delle popolazioni del Mezzogiorno e di quelle del resto d’Italia.

In una parola: spetta al Mezzogiorno proporsi di riformare lo stato centralista e burocratico e, in definitiva, di realizzare un’autentica, accettata e condivisa unificazione del Paese.

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