10.6.10

Io, Pippo e l'arciprete Restivo al liceo di Canicattì (S.L.L.)

Un po’ di navigazione sul sito, molto ricco e interessante, “per la Sicilia”, curato dall’ottimo Salvatore Vaiana (http://www.perlasicilia.it/index.htm), i cui libri dovrò procurarmi appena tornato in Sicilia, mi ha condotto nel vivo di una polemica su monsignor Angelo Ficarra, il grande intellettuale e vescovo, originario di Canicattì, la cui persecuzione, ad opera della stessa gerarchia ecclesiastica, fu raccontata da Leonardo Sciascia nel bellissimo Dalle parti degli infedeli
In un prossimo post darò conto della discussione riportandone qualche documento. Qui voglio invece raccontare un pezzo della mia prima giovinezza riportato alla luce dal nome dell’arciprete Restivo, un anziano prelato che dopo tanti anni maramaldeggia ancora con monsignor Ficarra e che io ho avuto la ventura di conoscere e praticare. La memoria è una facoltà attiva che seleziona i dati di realtà e li mette in ordine a modo suo. Non posso perciò garantire che le cose siano andate esattamente nel modo che racconto, ma assicuro l’occasionale lettore che io le ricordo proprio così (S.L.L.).
 

Monsignor Vincenzo Restivo era mio insegnante di Religione al Liceo Foscolo di Borgalino, a Canicattì. Non mi era simpatico. Nel corso A, come professore di Filosofia, avevamo un altro prete, padre Conti, originario di Licata, colto, tollerante, autoironico, grande affabulatore, perfino un po’ demagogico. Al confronto l’arciprete (era questo l'incarico nella Chiesa di Restivo e così lo chiamavamo), un misto di unzione e di apparato, appariva scialbo e appiccicoso. 
Io già in primo liceo, prima ancora di iscrivermi alla Fgci scegliendo il comunismo (lo feci tra il secondo e il terzo), mi definivo ateo; e da ribelle ostentavo il mio ateismo innanzitutto col prete che insegnava religione. M’era compagno nella contestazione dei dogmi e dei riti cattolici, che a quel tempo (e - lo confesso - tuttora) mi sembravano ridicoli, Pippo Bellomo. Io lo chiamavo così e non Peppe, come facevano i più. Si definiva comunista già in primo liceo, ma comunista sul serio non sarebbe mai diventato. Il padre era proprietario terriero tra i maggiori della zona, con un numero incredibile di figli e una storia turbolenta alle spalle. Uno degli zii paterni era amministratore delle proprietà di non so qual ramo dei baroni La Lumìa. Aveva un altro zio, medico a Palermo e compagno, che era consigliere comunale per il Pci nella capitale isolana. Tuttavia a Canicattì non avrebbero mai permesso a Pippo di organizzarsi nello stesso partito dei “villani”. Quando si trasferì altrove aveva già cambiato idea.
Contro l’arciprete Bellomo ed io facevamo coppia, ma non esageravamo: qualche intervento ironico sul corpo e sangue di Cristo o sui miracoli della Madonna, qualche altro un po’ più serio (ma da ignoranti) sul dio buono e onnipotente che tollera il dolore e il male e addirittura lo crea, qualche polemica relativistica in campo etico, basata sulla costatazione empirica della varietà dei principi morali nel tempo e nello spazio. Il tutto in forme assai riguardose.
Non era ancora arrivato il Sessantotto e, pur non avendo “timore di Dio”, avevamo una paura matta del preside Cavallo, detto Bacalone. In politica peraltro, a Canicattì e dappertutto, comandava la Dc e la scuola era molto clericalizzata. C’erano anche dei vantaggi: il mercoledì delle Ceneri si andava, quasi obbligatoriamente, a Messa e si partecipava al successivo rito del Memento homo; il mercoledì santo si anticipavano di un giorno le vacanze pasquali per il collettivo “precetto”. Sempre meglio che sopportare le lezioni.
In secondo Liceo il massimo della trasgressione lo mettemmo in atto il giorno del Concorso Veritas. La diocesi premiava con medaglie e pergamene i migliori elaborati su un tema religioso. Il giorno del concorso era totalmente libero da lezioni. Una nostra professoressa, una grande donna, grecista e socialista, rifiutava l’assistenza alla prova, ma facilmente trovavano chi la sostituisse.
I temi tra cui scegliere quell’anno erano due, uno sulla perenne attualità della Passione di Gesù e l’altro sul ruolo dei laici nella Chiesa. Li svolgemmo entrambi in coppia: da poeti e a sua firma quello sulla Passione; da birichini e a mio nome quello sui laici.
Il primo elaborato che producemmo era un poemetto in quartine sul sacrificio e la resurrezione del Signore. Scrivevamo un verso a testa: usavamo la rima incrociata di modo che, nella seconda parte della quartina, ognuno si collegasse al verso dell’altro. Non era la prima volta che facevamo un siffatto giochino: a volte venivano fuori schifezze, altre volte endecasillabi - se non belli - buoni, con il numero esatto di sillabe.
Nel testo poetico composto per il premio Veritas rispettammo, in linea di massima, la sequenza evangelica degli eventi, ma ci sbizzarrivamo nelle scenette di contorno. Ricordo che il terremoto della resurrezione coglieva i peccatori sul fatto e rammento l’espressione “coiti di soldati osceni”. Non so più chi l’inventò né con quale altro orrore facesse rima.
L’altro lavoro fu meno complicato. Pippo, migliore disegnatore, abbozzò sul foglio una pergamena e vi scrisse dentro un Sine pecunia Missa non cantabitur seguito dalla firma, Summus Pontifex. Era la trasposizione in latino maccheronico del proverbio siculo Senza sordi ‘un si canta missa. In calce si spiegava sillogisticamente che tirar fuori i quattrini non poteva essere compito del clero, che anzi li intascava, ma appunto dei laici. Insomma era una cosa abbastanza stupida e del tutto innocua.
Ma l’arciprete Restivo, che correggeva i lavori e selezionava quelli da mandare ad Agrigento, ci fece capire che l’avevamo fatta grossa e, come misura punitiva, senza altre spiegazioni, ci tolse la libertà di intervenire in classe ai margini della sua catechesi. L’anno scolastico per fortuna si chiuse presto.
Quando in ottobre riaprirono le scuole, le limitazioni alla nostra libertà di parola continuavano. Un giorno - doveva essere novembre - l’arciprete si esibì in una grande tirata finale: “Ed è per questo che la religione è diventata un elemento insostituibile per l’individuo e per la società”. Io commentai stentoreo: “La religione è l’oppio dei popoli”.
Il prete perse le staffe, mi gridò: “Vai fuori”. Intanto il compagno di banco del mio amico, Totò Lo Brutto, spesso distratto e un po’ duro d’orecchio, chiedeva al suo vicino Pippo: “Cos’ha detto? cos'ha detto?”. Bellomo ripeté solenne: “La religione è l’oppio dei popoli”. Monsignor Restivo s’arrabbiò ancora di più e lo cacciò come un cane.
C’era da essere contenti: insieme non ci saremmo annoiati. L’unico problema era sfuggire a Bacalone, sempre in giro per cessi e corridoi ad infierire su puniti e fumatori. Ci andò bene: era una quinta ora e c’era una quarta ginnasio libera da alunni. Ci infilammo lì a parlare dei nostri amori sempre infelici. Pippo, alla fine delle chiacchiere, prese una decisione: “Ad altri lidi ormai volgo la prora”. Quando fummo tornati in classe l’arciprete fece il buono: “Non farò rapporto al Preside, ma d'ora in poi, quando io entro, voi uscirete”.
Non ci pareva vero. La settimana successiva nel nostro rifugio trovammo il bidello Cardinale che si avvantaggiava con le pulizie. Era uomo di mondo (o come tale si presentava): gli confessammo le ragioni della nostra presenza e ne ottenemmo la complicità. Dovevamo sopportare un po’ di polvere durante la spazzatura dell’aula, ma dopo qualche minuto l’avremmo riavuta tutta per noi.
Il bello però doveva ancora venire. La finestra di quel quarto ginnasio dava su un cortiletto sterrato pieno di erbacce. Vi insisteva un’abitazione, una casetta di un solo piano, forse nata come stalla. Al tempo dimore del genere ce n’erano, spesso strapiene di figli. Non so se quella fosse sovraffollata, ma ch’era piccola si vedeva, cinque metri per sei, non di più. Ebbene, avevamo vinto alla Sisal: la nostra ora settimanale di punizione coincideva con il giorno del bucato nella famigliola che abitava in quel cortile di Borgalino.
Chi lavava la biancheria, strofinandola su una specie di tavola ondulata connessa alla pila dell’acqua, era una giovinetta sui quindici anni, già donna fatta. Lo faceva all’aperto, en plein air direbbe il pittore. Era robusta, aveva le gambe ben piantate e un grande sedere che muoveva ritmicamente dandoci le spalle. Non si può dire che fosse bella, ma era uno spettacolo. E la visione migliorò all’inizio della primavera, quando tolse le lunghe e pesanti calze e si vide il biancore della pelle. Per poco che si vedesse a noi sembrava tanto e alimentava i nostri sogni di giovanotti un po’ repressi.
Un giorno, durante la ricreazione, Cardinale ci chiamò: “E’ venuto il padre di quella ragazza. Non voleva neanche parlare col Preside, cercava voi per ammazzarvi. Io ho detto che non è possibile, che in quell’aula a quell’ora non può esserci nessuno; ma voi lì non ci potete andare più”. Noi tentammo di fare gl’Indiani, “quale ragazza?”, ma confessammo assai presto. Cardinale, per farci riammettere in classe, si offrì quale mediatore con l’arciprete. Costui pretendeva un pubblico mea culpa, ma, dopo una trattativa per interposto bidello, s’accontentò delle scuse private e del rinnovato impegno al silenzio. L’anno scolastico intanto volgeva al termine. E anche il nostro corso di liceali.

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