13.6.10

Il regime e la casta. L'articolo della domenica.

Ha ragione Umberto Eco. La crisi di regime sembra giungere ad una conclusione autoritaria e la stessa gradualità con cui realizzano le diverse parti del disegno sembra favorirne il compimento, perché divide ed isola i potenziali oppositori ed abitua la pubblica opinione all’idea della ineluttabilità del processo in atto.

Come sempre in questi casi la compressione del lavoro, dei suoi diritti, della sua autonoma rappresentanza, in nome dell’assoluta supremazia dell’impresa e del capitale, è la chiave di volta del progetto. Spezzare la resistenza della Cgil è diventato l’obiettivo primario. E lo si fa con tutta la violenza possibile. Insieme al lavoro si comprimono i diritti sociali. Il governo centrale parte dalle pensioni, ma affida alle Regioni ed agli Enti locali a corto di risorse il compito di sottrarre diritti a quante e a quanti con fatica e lotte li hanno conquistati: donne, bambini, malati, anziani non autosufficienti e chi più ne ha più ne metta.

Si prosegue con il soffocamento delle libertà civili, dalla libertà di espressione e di comunicazione a quella di manifestazione, di cui la cosiddetta legge sulle intercettazioni è la punta di lancia. Meno evidenti e più difficili di quelli sulla Tv saranno gli interventi mirati a controllare la rete delle telecomunicazioni, ma neanche Internet potrà tenersi completamente al riparo dall’attacco.

L’ultimo elemento riguarda la tendenza a concentrare al massimo il potere, eliminando, o almeno comprimendo, gli elementi di controllo e di equilibrio. Nel sistema economico e sociale si tende ad affermare e, in prospettiva, a consolidare con modifiche costituzionali il dominio incontrastato del capitale; non solo sui lavoratori, ma sui poteri locali e sulle comunità e dunque sul territorio e sull’ambiente, sui beni comuni e i bisogni essenziali, la salute in primo luogo. Tutto ciò deve essere sottratto al pubblico e affidati interamente al mercato per consentire la valorizzazione del capitale. Nel sistema politico si intende portare alle estreme conseguenze il primato degli esecutivi rispetto alle assemblee elettive e, dentro gli stessi esecutivi, il ruolo del capo a cui tutti gli altri devono essere subalterni.

E’ questo il senso della battaglia personale del Cavaliere Berlusconi che non solo si lamenta dell’eccessivo peso dei gerarchi, ma rimette a posto l’ambizioso Tremonti, definendolo un “tecnico”. E’ a una sola persona, insomma, che va demandata la rappresentanza dei poteri forti (finanza, industria, gerarchia ecclesiastica, grandi corporazioni) e il ruolo di mediazione. Ecco perché tra le riforme costituzionali che concluderanno il processo non potrà mancarne una che garantisca la torsione personalistica del sistema, il presidenzialismo o il rafforzamento del premier con il conferimento del potere di revoca dei ministri.

Quanto agli altri contrappesi tipici dei sistemi liberaldemocratici non è il caso di farvi affidamento. Il potere del Parlamento è già fortemente ridotto dalle modalità della sua elezione, che nessuno davvero intende cambiare. Rimane il potere giudiziario, ma si intende spuntarne gli strumenti di controllo di legalità attraverso il sostanziale blocco delle intercettazioni e la riconduzione nell’area di influenza governativa della promozione e conduzione delle indagini.

Il regime politico che può risultare da questa serie di atti, iniziative, annunci, avrà probabilmente alcune peculiarità italiane (per esempio quelle connesse al peso della Chiesa cattolica e al ruolo di alcune grandi corporazioni professionali e, di converso, alla minore rilevanza dell’esercito e dell’apparato militare), ma rientra in un modello conosciuto, per esempio la “democratura” che c’è in Russia. Io credo peraltro che non ci si possa aspettare niente dall’Ue che freni la concentrazione del potere: processi analoghi sono in atto in diversi paesi e comunque l’Europa politica non è mai stata così debole, così incapace di imporre alcunché agli Stati membri.

Le opposizioni a questo processo sono deboli e inefficaci. Ho già detto delle difficoltà della Cgil. Intanto sulle opposizioni istituzionali (quelle presenti in Parlamento e/o nelle Regioni e negli Enti locali) si esercitano diverse spinte centrifughe. Nel Pd riaffiora continuamente la tentazione ricorrente a defilarsi dall’opposizione intransigente, a cercare un modus vivendi con i berlusconidi. Capo di questa tendenza è il Napolitano, un rudere politico che non ha una sua corrente vera e propria, ma che fa pesare il suo ruolo di presidente della Repubblica. Alternativamente la sostengono i due eterni rivali, Veltroni e D’Alema, perennemente l’un contro l’altro armati. Nello Pd, ma anche fuori di esso, nelle altre forze del centrosinistra la ricerca di collocazioni e visibilità individuali e di gruppo impediscono perfino una modesta “unità d’azione”.

Ciò detto non attribuirei, oggi come oggi, troppe responsabilità alle opposizioni politiche: non sarebbero in grado di muovere molto, neppure se volessero; si sono già da tempo mangiate il patrimonio di fiducia che un tempo aveva la sinistra. Quello di centrosinistra è ormai un ceto politico scadente, reso rissoso e carrierista da quasi venti anni di “autonomia della politica”, di separazione, talora teorizzata sempre praticata, dai referenti sociali. E non mi riferisco soltanto o soprattutto alle modalità organizzative, alla separazione dalla base, alla fine del cosiddetto radicamento, parlo anche della politica e delle politiche.

Berlusconi, per esempio, da sempre fa il giro delle sedici Chiese, Confindustria, Confartigianato, Confcommercio, Confedilizia, Ordini dei medici, degli avvocati, degl’ingegneri, dei farmacisti, dei geometri, etc. Va a fare l’imbonitore, dice spesso stronzate, ma il suo messaggio è chiaro: io vi rappresento e vi difendo, guai a chi vi tocca. Ne ottiene la fiducia e non ha bisogno di radicamento territoriale. I capi del centrosinistra al contrario sistematicamente ignorano o sottovalutano i potenziali referenti sociali.

Penso in primo luogo al lavoro nel privato, quello di livello più basso, quello più subordinato e sfruttato, quello meno protetto, il cui voto andava un tempo prevalentemente a sinistra: gli operai delle grandi fabbriche come quelli delle officine e dei piccoli cantieri, i dipendenti dei supermercati e dei centri commerciali come le commesse e i commessi della piccola distribuzione. Ma penso anche ai nuovi paria, i più precarizzati, i lavoratori “cognitivi” diplomati e laureati dei tanti lavoretti pubblici e privati o quelli dei call center.

Chi ha saputo nella politica di centrosinistra parlare con questo mondo, chi è andato a dire “io vi rappresento senza se e senza ma”, mentre perdeva salario, diritti e speranze? Era inevitabile che il consenso elettorale si perdesse, che questi lavoratori in gran parte rifluissero nella sfiducia, nella disperazione o, perfino, nell’egoismo territoriale e razzistico della Lega.

Penso poi al mondo della cultura e dello spettacolo e ai settori del lavoro pubblico che tuttora votano in gran maggioranza per il centrosinistra, agl’insegnanti per esempio, ai lavoratori della sanità pubblica o della tutela ambientale. Avete mai visto un capo del centrosinistra valorizzare senza riserve queste categorie, promettere di rappresentarle?

I “governisti” e gli “sviluppisti” del Pd (ma in Umbria abbiamo avuto anche nel Prc un segretario regionale che gridava “assessorato o morte”) aspirano tuttora a una “politica” che si ponga al di sopra del conflitto sociale, che guidi dall’alto i processi economici senza rappresentare nessuno, ma cercando i voti di tutti. Una stupidaggine. Non credo che quello elettorale sia un mercato, ma perfino nel mercato delle merci ormai ci si rivolge a fasce ben individuate di consumatori, quelle che gli anglofili chiamano target.

Rispetto a tutto ciò ci sono segni di resipiscenza in Bersani. E fuori dal Pd c’è Vendola che, con chiarezza e capacità di leadership, dice che dal lavoro e dal pubblico si deve partire. Ma non si può sperare che si cancellino i vizi di vent’anni in venti giorni. E poi c’è sempre il furbo di campagna che gioca a fotticompagno, che, invece di unire, pensa a guadagnare spazio sgomitando e gridando più forte.

Insomma dalla opposizione istituzionale non si può sperare molto.

Qualche resistenza all’instaurazione di un nuovo regime può venire più facilmente dall’interno della compagine governativa: non tanto dalla destra “legge, ordine e laicità” di Fini, poco consistente, quanto dalla Lega di Bossi.

Essa ha già conseguito una grande vittoria politico-culturale, ha spezzato l’unità dell’Italia nella coscienza prima che nelle leggi. Accade perciò che perfino i meridionalisti più consapevoli, quelli che ricordano come il dualismo economico e il sottosviluppo meridionale sono state la condizione per la crescita del Nord, sembrano fossilizzarsi in una reazione orgogliosa, in una denuncia delle gravi ingiustizie patite dal Sud dal Risorgimento ad oggi, ma non hanno nulla da contrapporre al federalismo separatista di Bossi e Calderoli. La situazione alla fine potrebbe autorizzare un secessionismo consensuale, per sfilacciamento del tessuto unitario.

L'ostacolo più grande a questo esito è, paradossalmente, Berlusconi che, essendo da sempre tramite il tra l’affarismo nordista e le borghesie mafiose del Sud, ha una visione unitaria della nascente “democratura”.

Ultima osservazione. Nella preparazione ideologica del nuovo regime sono già stati individuati i bersagli da gettare in pasto alla pubblica opinione: i dipendenti pubblici “fannulloni” cari a Brunetta, i magistrati, i sindacalisti, il ceto politico allargato (la cosiddetta “casta”). Sembrano nella propaganda di lor signori non avere alcuna responsabilità nella crisi i finanzieri che si sono ingrassati con la finanza creativa, gl’industriali che, intascati gli incentivi, hanno delocalizzato, la massa degli sfruttatori del lavoro nero e gli eroi dell'evasione fiscale. La novità di oggi è che l’attacco alla “casta” sui giornali di Berlusconi (e, più subdolamente, anche nelle tv) assume sempre più caratteri “bipartisan”, coinvolgendo nella denuncia di vizi e privilegi esponenti di destra e di sinistra. E’ la riproposizione dell’antico antiparlamentarismo e dell’antipoliticantismo della destra autoritaria italiana, che anche dal fascismo fu utilizzato per screditare la politica come partecipazione, come attività nobile: "sono tutti una massa di ladri" - si diceva - "è meglio che comandi uno solo, l'uomo forte". Queste interessate tiritere tornano a funzionare perchè il ceto politico italiano è davvero vasto e famelico. Scrisse qualche tempo fa Rossana Rossanda, riprendendo Mao Tse Tung, che gli esosi politicanti che ci ritroviamo pesano come macigni sulle schiene del popolo. So che l'eliminazione di mangiatoie e mangiatori costerebbe non poco al centrosinistra e tuttavia è un tema che non si può fare a meno di affrontare: esso crea problemi non meno gravi al centrodestra, cui fanno riferimento moltissimi dei parassiti che infestano le pubbliche istituzioni nel Sud e nel Nord d’Italia. Una leadership di opposizione che volesse bloccare la costruzione della “democratura” lavorerebbe su questa contraddizione, assai forte in tempi di crisi, lancerebbe proposte tanto chiare da sembrare demagogiche: su auto blu, emolumenti, Enti di secondo livello, finti manager con contratti d’oro, a tutti i livelli. Lo farà? Ho qualche dubbio.

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