27.5.10

La marcia, il giorno dopo ("micropolis" maggio 2010)


Centomila alla Marcia della Pace del 16 maggio: in un giorno ventoso e a rischio di pioggia un corteo lunghissimo, una partecipazione variegata, bandiere, colori. Molti vengono dal Nord. Un segnale di resistenza contro l’ondata xenofoba e razzista. Pure, già in serata, il Tg3, “istituzionalmente” il più amico, ne ridimensiona peso e portata, collocando la notizia in settima posizione, subito prima di una manifestazione a Piazza San Pietro in favore della Chiesa di Ratzinger, cui si attribuiscono 200 mila partecipanti.
Il giorno dopo le cronache dei quotidiani registrano il successo della Perugia-Assisi, ma, nello stesso tempo, segnalano la difficoltà di ricavarne un messaggio univoco. Tra i giornali insediati in Umbria solo “La Nazione” titola Centomila hanno gridato pace, sugli altri si legge Centomila per pace, legalità e diritti o, addirittura, Assisi. Diritto al lavoro protagonista della Marcia. 
Di sicuro pesa la crisi che ha colpito l’Occidente opulento: non ha più l’ascolto di un tempo il discorso “terzomondista” su cui si impiantava, in precedenti edizioni, l’“Onu dei popoli”. Ma è un’altra la ragione più importante per cui l’iniziativa non morde, non trova eco fuori dalla sfera, numerosa ma chiusa, del pacifismo largamente inteso: manca un centro unificatore, manca un obiettivo. La Marcia è stata, infatti, organizzata intorno a sette antitesi (Egoismo v/s Responsabilità, Speranza v/s Paura, Non violenza v/s Violenza, Giustizia v/s Mafie, Libertà v/s Censura, Diritti umani v/s Razzismo e, naturalmente, Pace v/s Guerra) e la scelta riproduce il limite di fondo dei “no-global”, del “movimento dei movimenti”: una concezione sommatoria dell’unità. Ogni soggetto, in pratica, marcia insieme agli altri, ma esaltando la propria specificità, senza fare massa. Il paradosso è che il movimento no-global un centro di attrazione, nonostante tutto, era riuscito a trovarlo e proprio nel tentativo (fallito) di impedire gli interventi voluti da Bush in Afghanistan, in Iraq e altrove.
Le guerre peraltro continuano e, sebbene la Tavola della Pace metta la sordina alla stessa richiesta rivolta all’Italia di tirarsi fuori dalla guerra afgana, da quelle parti giungono nuove che spiazzano. I morti e feriti del contingente italiano, proprio il giorno dopo la Perugia-Assisi, obbligano i pacifisti ufficiali ad alzare i toni (Via l’Italia dalla guerra!) prima abbassati in conferenze e comunicati. Alla vigilia della Marcia il coordinatore, Lotti, si era persino incontrato con il Capo di stato maggiore della Difesa, per spiegargli le sue ragioni e ascoltare quelle del generale. L’apertura del dialogo, coerente con lo spirito e le pratiche della nonviolenza, avrebbe dovuto seminare dubbi nei cuori induriti dei soldati di carriera, tuttavia, dopo i morti afgani, i rumores dicono di un malessere dei capi militari per le regole d’ingaggio troppo “pacifiste” e per i sistemi d’arma inadatti a colpire “il nemico”.
Non credo che il pacifismo italiani debba rinunciare ai gesti esemplari e dunque al dialogo con chiunque, fosse pure il più acceso militarista, ma, se non vuole condannarsi all’irrilevanza, dovrà rimettere in ordine gli obiettivi e indicare come priorità assoluta il ritiro dall’Afghanistan e la drastica riduzione delle spese militari, per quanto ciò possa dispiacere ad alcuni strumentali fiancheggiatori. Primi fra tutti i dirigenti del Pd, che perfino nella crisi non rinunciano alle scelte interventiste e un po’ imperialiste che li hanno contraddistinti nel recente passato.
Forse serve un ritorno alle origini. La prima Perugia-Assisi fu una manifestazione plurale e aperta: la grande abilità di Capitini consistette nel mettere insieme le diversità, frati e anticlericali, filoamericani e amici dell’Unione sovietica. Ma il grande perugino non rinunciò a dire, anche nel manifesto di convocazione, da che parte stava, per esempio definendo la marcia una “manifestazione popolare contro l’imperialismo, il razzismo, il colonialismo e lo sfruttamento”. Era aperto al dialogo, capace di attrarre consensi, ma intransigente sui principi (lo ha dimostrato con opportune citazioni lo storico Domenico Losurdo, presentando a Perugia il suo libro La nonviolenza): la scelta nonviolenta non gli impediva infatti di simpatizzare per gli oppressi (algerini, congolesi, vietnamiti) anche quando usavano la violenza, di condannare gli interventi “pacificatori” dell’Occidente, di combattere il militarismo. Una briciola di quella intransigenza servirebbe anche oggi. E se il generale Camporini rifiutasse di incontrare Lotti, se il sindaco di Assisi negasse la sponsorizzazione, se D’Alema e Bersani si lamentassero, peggio per loro.

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