9.5.10

In cielo, in terra e in ogni luogo. Veltroni e Sereni all'assemblea di Area democratica. L'articolo della domenica.

Ho ascoltato per Radio l’assemblea nazionale di Area Democratica, la corrente di Franceschini, Veltroni e Fassino, che si è svolta a Cortona. Ne hanno scritto ampiamente i giornali, da punti di vista assai diversi, perfino prospettando scissioni. C’è chi ha parlato dei mugugni di Castagnetti, chi degli avvertimenti di Gentiloni a Bersani (“Basta chiamarci compagni”), dell’ultimatum di Fioroni (“non so se il prossimo anno ci sarò ancora”). Il dibattito è stato deludente, in taluni passaggi strabiliante. Faceva impressione sentire tanti oratori, giovani e meno giovani, impegnatissimi a discorrere di vocazione maggioritaria, di partito delle primarie, di sistemi elettorali, tutti inferociti contro D’Alema e Bersani, tutti a digrignare i denti contro una sia pur vaghissima idea di un partito di sinistra, mentre la crisi finanziaria e la crisi economica, intrecciandosi, sembrano travolgere diritti, speranze, costruzioni faticose, mettendo in discussione l’Europa, la democrazia politica e quel po’ di democrazia sociale che rimane. Ma sono fatti così, è questo il ceto politico, un po’ intrigante un po’ fighetto, che la buona politica veltroniana mescolata all’attivismo gioioso dei “compagnucci della parrocchietta” ci consegna. E’ il popolo dei Renzi e delle Serracchiani, che continua a pensare che il nuovo è bello, anzi più bello, e non vede che il “nuovo che è avanzato” è in realtà la restaurazione di gerarchie sociali e politiche arcaiche e che contiene in sé i germi di un ritorno alla barbarie.

La crisi e la sua potenza devastante, nella maggior parte degli interventi, era sì presente, ma in forma di giaculatoria o, se si vuole, di esorcismo; poi, celebrato il brevissimo rito ed esaurite le formule, tornavano a ragionare d’altro, di questione settentrionale, di “dobbiamo messere più moderni di Berlusconi e più federalisti della Lega” ed altre consimili idiozie. Sembravano matti o, quanto meno, fuori dal mondo. Tutti meno uno.

Parlo di Veltroni. C’è chi dice che è tornato, chi parla di una nuova discesa in campo, ma il suo discorso, dai più ignorato, era il più allarmato, il più attento nella rappresentazione del presente, in certi passaggi perfino il più bello.

Parlava del carattere profondo, quasi epocale, della crisi, mostrava come essa macina non solo diritti, ma idee, partiti e stati, come si mangi progressivamente diritti e democrazia, come determini contraddizioni anche nei posti più impensati (la Chiesa cattolica ad esempio). Si fermava sulle peculiari, drammatiche tensioni che percorrono l’Europa, che, capace di darsi una moneta comune, non è stata capace di unificarsi non solo sul terreno precipuamente politico, ma neanche sul terreno dei diritti sociali e delle scelte economiche di fondo, se non a livelli minimi. Questo scarto - diceva - in tempi di crisi si è fatto abisso. Non ha esitato a fare un riferimento terrificante agli anni Trenta e costruirvi sopra un’antitesi tra Europa e Nord America. Da uno come lui, che ha rifiutato Marx e il marxismo e che ha idolatrato il capitalismo e l’economia di mercato come portatori, in ultima analisi, di benessere e di democrazia, non ci si può attendere di più: un discorso di verità sulle cause profonde della crisi esula dalle sue competenze; ma la rappresentazione degli effetti appare tutto sommato convincente.

E dopo? E dopo quasi niente: “il partito democratico unica vera grande innovazione politica”, il popolo delle primarie, il riformismo senza attributi, la fine delle categorie novecentesche, tutte le bandiere consunte del nuovismo, un po’ americaneggiante e un po’ berlusconeggiante, del Walter. Insomma la classica montagna che partorisce il topolino.

Un altro passaggio dell’assemblea mi ha fatto drizzare le orecchie, il discorso di Marina Sereni, la deputata umbra che, dopo aver fatto strada tra i birmani di Fassino, è diventata una sorta di “pasionaria” del correntone antibersani. E’ lei che, più di altri, ha voluto rispondere alla dura rampogna del segretario Pd.

Costui aveva detto: “Il Pd deve occuparsi del lavoro e dei suoi problemi. Deve lasciare stare le cazzate. Io chiedo che il mio partito sia fondato sul lavoro”. La Sereni ha provato a fargli il pelo e il contropelo, non tanto sul linguaggio da gaglioffo quanto sul tema specifico del lavoro: “Di quale lavoro parla Bersani? Se intende anche il lavoro degli imprenditori innovativi piccoli e medi, il lavoro nelle professioni nuove e vecchie, il lavoro di chi il posto fisso non ce l’ha e non lo vuole e non solo i lavori ottocenteschi e le loro forme precarizzate, non possiamo che essere d’accordo. A tutto questo mondo dobbiamo rivolgerci”.

La Sereni forse non se ne accorge, ma la sua formazione di funzionaria Pci e i corsi delle Frattocchie continuano ad orientare il suo modo di pensare e di esprimersi. La sua è una moderna declinazione della “politica delle alleanze” che aveva il suo Talmud nel Togliatti di Ceti medi e Emilia rossa e aveva trovato un suo sviluppo nei ripetutamente proposti “patti fra i produttori” contro le rendite e i parassitismi: tra tutti i produttori - non importa se capitalisti o operai, se lavoratori o profittatori sul lavoro.

Erano cose che, al tempo, non piacevano alla sinistra del Pci e ai critici da sinistra del Pci, che vi vedevano un abbandono della lotta di classe. Ma anche allora (la cosa cominciò negli primi anni Sessanta e finì col Pci) c’erano dirigenti di vertice e di base che vedevano nel patto dei produttori una strategia di lunga durata e speravano che, nel tempo, il partito avrebbe organizzato e rappresentato tutte le categorie contraenti. Eppure una differenza c’era: in quelle aperture (o, a seconda dei punti di vista, in quegli sbracamenti) il punto di partenza era certo. Il partito, anche statutariamente, era “il partito della classe operaia e di tutti i lavoratori” e da quell’insediamento, anche elettorale, partiva per ampliare adesioni e consensi. Il partito di Veltroni (e di Sereni) non ha (e non vuole) né insediamento sociale né territoriale, vorrebbe essere “puro spirito” e con quella sua volatilità mobilissimo spostarsi, vorrebbe “essere in cielo, in terra e in ogni luogo”. Ma, lo diceva già Seneca un paio di millenni fa, "chi vuol essere dappertutto, non sta da nessuna parte".

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