26.5.10

Come scrivere (e divulgare) la storia antica. Augusto nel ritratto di Luciano Canfora

Luciano Canfora, comunista impenitente, è tra i maggiori storici dell'antichità (e non solo), capace di trascorrere dalla costruzione di grandi quadri storico-sociali alla rappresentazione dei giochi di potere nella loro durezza, dal racconto minuto e accuratissimo di eventi singoli e singolari a ricognizioni storico-teoriche a tutto campo. Oltre ad una scrittura brillante egli conserva una straordinaria capacità di attualizzazione. Non si tratta tuttavia delle arbitrarie ed infondate banalizzazioni giornalistiche che talora ci accade di osservare, ma della convinzione, storicamente legata al nome di Machiavelli, che esistano nei comportamenti politici meccanismi ferrei, non legati strettamente alla contingenza storica, ma alla natura dell'uomo, alla sua materiale animalità. Il testo che pubblico mi pare esemplare, nella sua brevità. L'ho ripreso, con alcuni tagli all'inizio e alla fine, da "il manifesto" di mercoledì 12 agosto 1992 (S.L.L.).

Ottaviano ha conquistato il ruolo di “successore” di Cesare, contrastando il passo con astuzia non comune, cinismo e ferocia, alleanze strumentali agli altri aspiranti alla successione di Cesare; e ha combattuto inculcando a tutti il dato, ossessivamente ripetuto, del proprio ruolo di erede e vendicatore di Cesare; e dopo aver vinto ha agevolato la formazione dell’idea che quanto Cesare aveva solo abbozzato era solo col con lui finalmente giunto a perfetta elaborazione e a compiuta realizzazione.
Nel «partito» di Cesare, nei luogotenenti che con Cesare avevano combattuto in Gallia e poi nella guerra civile contro Pompeo e il Senato, Ottaviano ha avuto i suoi avversari più tenaci. Li ha giocati gli uni contro gli altri, con alleanze tattiche durevoli fintanto che giovavano al suo unico fondamentale disegno: impadronirsi completamente dell' eredità politica e della successione di Cesare. In Antonio, fidato collaboratore e compagno d' arme di Cesare, ha avuto l' avversario più tenace e non ha avuto pace finché non l' ha annichilito completamente. «Dopo l' ultima sconfitta - narra Svetonio nella Vita di Augusto - Antonio fece un ultimo tentativo di pace, ma Augusto lo costrinse ad uccidersi e ne rimirò poi il cadavere». Solo con la scomparsa, anche fisica, di Antonio (31 a.C.), Augusto poté considerare di avere saldamente in mano l' intera eredità di Cesare e l'intero potere carismatico sull'esercito e sulla compagine statale. Erano passati tredici anni dalla morte di Cesare (44 a.C.): tredici lunghi anni di inesorabile, programmata, sapiente conquista del potere. Diversamente da Cesare, che affrontava la polemica aperta anche con gli avversari sconfitti, Ottaviano, ormai divenuto Augusto, preferì irreggimentare, conquistandone ad uno ad uno i protagonisti, la vita intellettuale. Creò un'arte volta a glorificare la sua azione politica, le sue parole d'ordine. E soprattutto prevenne e zittì ogni voce che intendesse eventualmente esprimersi in modo dissonante. Gli scrittori cominciarono ad autocensurarsi: Virgilio, il maggiore, cancellò un intero pezzo delle Georgiche e lo sostituì con un' insulsa tirata sulle api. Poeti d'amore, come l'elegiaco Properzio, si misero a scrivere odi «romane», in cui si parlava del «principe», nei modi graditi alla sua propaganda; giovani promettenti e di bassa estrazione sociale come Orazio furono catturati e portati a scrivere odi di esaltazione del vincitore di Azio.
Naturalmente c'era anche chi riteneva di potersi non piegare. Un vecchio amico di Antonio, il generale Asinio Pollione, ritiratosi a vita privata già prima di Azio, decise di scrivere un'opera di storia che prendeva le mosse dal «primo triumvirato», cioè dagli esordi, trent' anni prima, di Caio Giulio Cesare: ma Orazio scrisse apposta un'ode per spiegargli che si trattava di un'iniziativa pericolosa. E ci fu anche chi decise di non scrivere più nulla, pur di non accodarsi al coro. Proprio perché promotore e artefice di un così forte controllo sulla cultura - per la prima volta nella storia di Roma - Augusto sapeva anche concedersi la civetteria della liberalità: come quando scoprì un nipote che leggeva di nascosto un libro di Cicerone, gli tolse dalla manica della tunica il libro, non rimproverò il fanciullo, ma disse pensosamente che l'autore in questione - della cui morte era stato a suo tempo corresponsabile - era «un grande uomo e gran patriota».
Nella politica estera fu prudentissimo. Ritenne dissennato ogni avventurismo imperialistico, ogni spinta alla conquista. Con i nemici più pericolosi, i Parti, incombenti sulla frontiera orientale, preferì stipulare un «patto»: un patto molto sorprendente per i contemporanei (molto meno per i posteri e per gli storici), dal momento che una propaganda diffusa continuava a presentarli come i nemici inconciliabili dell'impero. Finché gli fu possibile volle concentrarsi sulla politica interna, nella creazione di un nuovo ordine stabile, e nella repressione di ogni tentativo, di avversari o di oppositori - reale o immaginario - di togliergli il potere. «In epoche diverse - dice ancora Svetonio - soffocò numerosissime sollevazioni, vari tentativi di ribellione e parecchie congiure». Volle a tutti i costi diffondere un'immagine di stabilità e di serenità, e anche per questo agevolò il proprio culto, ma le notizie sopravvissute nella tradizione bastano a farci capire che la facciata copriva un pericolo costante. Quando morì, il culto per la sua persona si era così largamente imposto che proprio i senatori - il gruppo sociale che più aveva visto ridursi il proprio potere a fronte di quello crescente del principe - «gareggiarono in zelo per rendere grandiosi i suoi funerali e onorare la sua memoria» (Svetonio). E sebbene avesse lasciato disposizioni minuziose nel suo testamento, la successione di un nuovo «principe» al suo posto non fu facile, tra l'altro sul piano formale. Tiberio gli subentrò, in quanto da lui indicato come «erede di primo grado, per la metà più un sesto». Nondimeno Tiberio, sebbene la successione stesse a rappresentare di per sé l' istituzionalizzarsi di un potere personale, volle apparire come un restauratore della legalità: quasi a significare che il defunto predecessore (cui erano stati attribuiti intanto onori divini) tale legalità appunto aveva, con la sua prassi di governo, di fatto violata. Non convocò un «XX Congresso» ma certo volle ridare un' impronta «collegiale» alla direzione politica.

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