25.2.10

Orwell e i compagni anticomunisti.


Un bell’articolo di Richard Newbury (Il fardello del santo laico), che il 23 febbraio occupava un’intera pagina de “La Stampa”. (http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/Libri/grubrica.asp?ID_blog=54&ID_articolo=2434&ID_sezione=81&sezione=), illumina i paradossi di Orwell, il grande scrittore de La fattoria degli animali e di 1984, di cui a gennaio alcuni (pochi in verità) hanno celebrato i sessanta anni dalla morte. Ci dice per esempio del suo “conservatorismo”, del suo amore quasi reazionario per usi, modi, riti del passato, di una “inglesità” vagamente nazionalistica che gli rendeva antipatici gli scozzesi, tutte cose che sembrano fare a pugni con il suo progressismo politico. E ci dice del suo peculiare sinistrismo, caratterizzato da un “precoce antimperialismo”, un “precoce antifascismo”, un “precoce antistalinismo”.

A 24 anni Orwell, che era nato nel 1903 nella vicina India, si dimetteva in Birmania da ispettore della polizia, non per una incompatibilità con il mestiere e la violenza che gli è connessa (era molto critico verso la dogmatica nonviolenza di Gandhi, che a suo dire protrasse il dominio inglese sull’India), ma perché disgustato dell’imperialismo. Nel 36 l’antifascismo lo portava in Spagna a rischiare l’uccisione da parte dei franchisti e da parte degli stalinisti. Nel 44, in piena guerra, quando Stalin era ancora per quasi tutti un alleato, un salvatore della civiltà, Orwell fece dello stalinismo il bersaglio di una penetrante satira ne La fattoria degli animali. Ciò non gli avrebbe impedito, l’anno dopo, di rifiutare un seggio parlamentare tra i laburisti perché “il Labour non era abbastanza di sinistra”.

La tesi dell’articolista è che Orwell, a differenza di tanti, non si contentò di essere antifascista, ma volle essere antitotalitario. Lo fece fin dai tempi della guerra di Spagna ove scoprì (vedi il suo Omaggio alla Catalogna) che a contrastare la tirannide c’erano anche quelli che volevano sostituirla con un’altra tirannide e tracciò una linea di demarcazione diversa da quella tra destra e sinistra, quella tra democrazia e totalitarismo.

Orwell è, a mio avviso, con Camus, con il suo amico Koestler, con Hannah Arendt e pochi altri, l’espressione di un radicalismo democratico che non esita a definirsi e ad essere effettivamente “anticomunista”, ma che rifiuta anche l’arruolamento nell’“anticomunismo”, il campo di chi tollera le peggiori infamie imperialistiche e fascistiche per combattere il nemico fondamentale. Questo suo rigore, etico prima ancora che politico, ne fa un maestro e un compagno. Il sentirlo tale non mi impedisce peraltro di dirmi e riconoscermi “comunista”, e non solo idealmente, ma facendomi carico del fardello (anche di vergogna) del comunismo novecentesco, che ha così inestricabilmente intrecciato liberazione e oppressione. Continuerò a chiamare compagni anche quei comunisti che ritennero, sbagliando e spesso pagando l'errore, che la libertà politica si potesse per qualche tempo sacrificare e che giustificarono la dittatura e la compressione dei diritti civili come passaggio verso un mondo che garantisse libertà piena a tutti. Sto con Dubcek e Berlinguer che, da comunisti, cercarono di riformare il comunismo e sto con Pertini che, con la diretta semplicità che lo contraddistingueva, dichiarava inseparabili la libertà e la giustizia sociale e spiegava che “quando c’è miseria, quando non c’è un lavoro dignitoso, quando non c’è la possibilità di dare un’istruzione ai figli, la libertà è un’irrisione, è la libertà di imprecare e di bestemmiare”.
Resta un punto da chiarire e riguarda la parola “totalitarismo”. L’idea di un potere statale che controlla tutto, che non si limita a dominare nella sfera politica, ma mira a distruggere la vita individuale e privata, soggiogando le coscienze attraverso l’ideologia, suscita in me lo stesso orrore e la stessa paura che provava Orwell; ma non ho dimenticato che “totalità” è anche il sistema di produzione capitalistico, che esso tende ad asservire alla sua logica tutti i rapporti umani, a ridurre a merce tutto, compresi i pensieri e i sentimenti. Ad Orwell ed agli altri compagni anticomunisti forse tutto ciò sfuggiva e non si rendevano conto che, impiantate in un sistema che ogni giorno se le mangia come quello capitalistico, libertà e democrazia hanno una vita assai grama e tendono a diventare parole vuote. Forse la sfida del millennio nuovo (e di quel socialismo?, comunismo?, o come altrimenti si chiamerà, che possa riprendere un percorso di liberazione interrotto) è proprio questa: la ricerca di una comunità umana una e plurale, l’affermarsi di un modo di produrre e di vivere insieme che garantisca a tutti e a ciascuno il massimo di libertà e di democrazia possibile. Io penso che non sia sbagliato chiamare “totalità” questa nuova forma dell’esistenza umana, purchè si tratti di una totalità pluralistica, libera e democratica. Non è una contraddizione ma un paradosso, di quelli cari ad Orwell: è una verità difficile a pensarsi, ma è quella stessa che i migliori del Novecento hanno intravista e a cui donne e uomini del nuovo millennio potranno dare corpo se le saranno fedeli.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Analisi acuta priva di isterismi e manicheismi patetici. Complimenti.

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