4.1.10

Brodskji. Come vincere i carcerieri (da "Il canto del pendolo")


Josif Brodskij, poeta e scrittore russo di prim’ordine, Premio Nobel per la letteratura nel 1987, nel 1964 venne condannato per “fannullaggine” a cinque anni di lavoro coatto. A quell’esperienza si collega il brano che segue, da Il canto del pendolo, rievocazione di un contesto, ma anche riflessione sulla non violenza.


Il male può essere reso assurdo per eccesso

Vent’anni fa, in una delle numerose prigioni della Russia settentrionale, avvenne la scena seguente. Alle sette del mattino la porta di una cella si spalancò e sulla soglia apparve una guardia che apostrofò i detenuti. “Cittadini! Il collettivo delle guardie carcerarie vi sfida tutti, voi detenuti, a una competizione socialista. Si tratta di spaccare il legname ammassato nel cortile”.

Da quelle parti non c’è il riscaldamento centrale e la polizia riscuote una tassa, per chiamarla così da tutte le aziende forestali dei dintorni facendosi consegnare un decimo della loro produzione.. Nei giorni di cui vi parlo il cortile della prigione sembrava un autentico deposito di legname.: le cataste avevano raggiunto un altezza tale che il quadrangolo della prigione, avendo un solo piano sembrava una casetta fra tanti palazzi. Era evidente che bisognava spaccare un po’ di legna, sebbene non fosse la prima volta che si svolgevano competizioni socialiste di quel genere. “E se io mi rifiutassi?” – si informò uno dei detenuti. “Beh, in questo caso vai a letto a pancia vuota” rispose la guardia.
Furono distribuite le asce ai detenuti e il lavoro cominciò. Prigionieri e guardie si misero d’impegno, e a mezzogiorno erano tutti sfiniti, specialmente i prigionieri, per via della loro denutrizione cronica. Fu annunciato un intervallo, e la gente si sedette a mangiare: tranne il tipo che aveva fatto quella tale domanda. Lui continuò a menare colpi d’ascia. Prigionieri e guardie si scambiarono battute su di lui, dicendo più o meno che di solito gli ebrei passano per drittoni memtre quello lì… e via di seguito.
Dopo l’intervallo ripresero il lavoro, non proprio con la stessa lena. Alle quattro le guardie smisero perché il loro turno di servizio era finito, dopo un po’ si fermarono anche i detenuti. Ma l’ascia di quello là continuava ad andare su e giù, su e giù. Gli gridarono di piantarla, glielo dissero le guardie e i prigionieri, ma lui niente. Sembrava che ormai, acquistato un certo ritmo, non volesse interromperlo; o era ilmo che si era impadronito di lui?
Agli occhi degli altri era diventato quasi un automa. Alle cinque, alle sei l’ascia era sempre in movimento: su e giù. Guardie e detenuti seguivano ogni suo gesto e a poco a poco l’espressione sardonica dei loro visi lasciò posto a un’espressione di stupore e poi di terrore. Alle sette e mezza l’uomo si fermò, si avviò barcollando verso lasua cella, vi entrò e stramazzò addormentato: Per il resto del suo soggiorno in quella prigione non fu più indetta alcuna gara tra guardie e detenuti, sebbene il legname continuasse ad ammucchiarsi.
Un’impresa simile – dodici ore a spaccar legna – fu possibile, suppongo, perché quel tipo era molto giovane. Allora infatti aveva ventiquattro anni. Appena un po’ più della vostra età. Ma io credo potrebbe esservi stato un altro motivo del suo comportamento di quel giorno. Può darsi benissimo che quel giovane - proprio perché era un giovane – ricordasse meglio di Tolstoj e di Gandhi il testo del Sermone della Montagna. Poiché il Figlio dell’Uomo era abituato a parlare per triadi il giovane potrebbe essersi ricordato che dopo il versetto
ma se uno ti percuote la guancia destra,
porgi a lui anche l’altra
non c’è alcuna pausa e il testo aggiunge subito:
E se uno vuol chiamarti in giudizio e toglierti
la tunica, cedigli anche il mantello.
E se uno ti fa forza a fare un miglio, va
con lui per due miglia.
Citati per esteso, questi versi in realtà hanno ben poco a che fare con la resistenza passiva o non violenta, con i precetti di non ripagare con la stessa moneta e di rendere bene per male. Il loro significato è tutt’altro che passivo, perché vi è implicita l’idea che il male può essere reso assurdo per eccesso; vi è implicito il suggerimento di rendere assurdo il male sminuendone le pretese con una condiscendenza pressoché illimitata che svaluta il danno. Un atteggiamento simile mette la vittima in una posizione molto attiva, nella condizione di un aggressore mentale.
La vittoria possibile in tali circostanze non è morale, bensì esistenziale. Qui l’altra guancia non mette in moto il senso di colpa del nemico (un senso di colpa che egli sarebbe capacissimo di soffocare), ma espone i suoi sensi e le sue facoltà all’insensatezza di tutta l’operazione. Forse è inutile ricordarvi che stiamo parlando di situazioni in cui uno si trova fin dall’inizio in uno stato di inferiorità irrimediabile, in cui uno non ha modo di contrattaccare, in cui le possibilità contro di lui sono schiaccianti. In altre parole, parliamo delle ore più buie della vita, quando il senso di superiorità morale sul nemico non offre alcun sollievo, quando questo nemico si è ormai spinto troppo oltre per vergognarsi o per avere nostalgia degli scrupoli abbandonati, quando uno ha a sua disposizione soltanto la propria faccia, una tunica, un mantello e un paio di piedi che possono ancora camminare per un miglio o due.
In questa situazione resta poco spazio per manovre tattiche. Così l’offerta dell’altra guancia dovrebbe essere, da parte vostra, una decisione consapevole, fredda deliberata. Le vostre probabilità di vincere, per quanto esili, dipendono tutte dal fatto che sappiate o no quel che state facendo. Quando spingete avanti la faccia con la guancia rivolta al nemico dovreste sapere che questo è appena l’inizio del cimento, soltanto il primo dei versetti.

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